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Pubblicato: 2017-02-15

Pneumologia Riabilitativa e Assistenza Domiciliare

Pneumologia Riabilitativa, ICS Maugeri IRCCS Lumezzane (Bs)

Articolo

Eventi acuti disastrosi possono richiedere un accesso in Terapia Intensiva (TI): tali fatti sono eventi complessi con un impatto fisiologico e psicosociale sul lungo termine spesso devastanti. In particolare, dopo tali fatti acuti i pazienti con patologie croniche mostrano un declino più veloce della funzione polmonare, della qualità della vita e del tempo trascorso fuori di casa. Gli obiettivi della riabilitazione sono limitare o prevenire il declino della funzione fisiologica, aumentare l’attività fisica, migliorare le capacità di autogestione e prevenire le ricadute delle patologie croniche, mentre nei casi più fortunati riportare il paziente ad una autonomia di vita quotidiana e ad una autonomia lavorativa. Nello studio di Moss 1 è stato dimostrato che un programma intensivo di Riabilitazione Polmonare (RP) (il doppio di sessioni e 4 volte il tempo totale erogato rispetto ad un programma standard) non ha migliorato sul lungo termine le prestazioni fisiche funzionali rispetto ad un programma di cura standard di minore intensità in pazienti che hanno richiesto ventilazione meccanica in TI per almeno 5 giorni. I pazienti ricevevano fino a 28 giorni di un programma intenso di RP con 30 minuti in TI e 60 minuti nel reparto medico, in ambulatorio o a casa. Varie possono essere le ragioni dei risultati ottenuti: 1) i pazienti in studio erano mediamente giovani, quasi tutti in condizioni di normalità o di benessere prima del catastrofico evento in TI (solo 5 pazienti erano BPCO e tutti provenivano da casa) quindi ben lontani da popolazioni di pazienti con pregresse patologie croniche più prone a devastanti peggioramenti sulla funzione muscolare già compromessa; 2) durante l’evento critico vi è eterogeneità dei pazienti con debolezza acquisita in TI; un programma intensivo di RP può infatti avere effetti diversi se applicato su pazienti solo decondizionati o su pazienti con severi danni muscolari; 3) la durata del programma di RP potrebbe non essere stata sufficiente a migliorare la funzionalità fisica; 4) molti pazienti sono stati trasferiti in un setting diverso ed il successo dei programmi intensivi potrebbe dipendere da una migliore integrazione con le cure ricevute in strutture successive; 5) l’intervento non ha incluso componenti importanti come la terapia occupazionale e la logopedia. È quindi chiaro che l’effetto delle RP può dipendere dalla struttura, dai tempi, dalla durata, dalla qualità della attività di training proposta o dalla qualità di educazione proposta. Comprendendo meglio la natura della malattia critica acuta potremmo quindi meglio investire nelle risorse spese per la riabilitazione. È ragionevole pensare che esistano popolazioni particolari (come pazienti con patologie croniche e con fattori aggravanti) che possano maggiormente giovarsi di tali programmi e quindi influenzare l’assorbimento di risorse e adesione al programma stesso. Lo studio ci fa capire come sia ormai impensabile parlare di programmi di riabilitazione “standardizzati” senza tener conto delle reali e attuali condizioni del paziente. Cioè, anche per la RP si deve sempre più parlare di riabilitazione “personalizzata” basata su adeguate misure funzionali, di disabilità e di partecipazione utilizzando, ove possibile, algoritmi che permettano di erogare solo ciò che serve, per il tempo che serve e con la frequenza che serve. Sono necessari quindi studi che: 1) meglio stratifichino i pazienti che possono giovarsi di tali specifici programmi intensivi; 2) promuovano e testino networks virtuosi tra gli sforzi riabilitativi erogati in TI e quelli erogati nella fase post-TI.

Un altro interessante lavoro di Maddocks 2 introduce in ambito riabilitativo specialistico il concetto di “fragilità” come fattore distintivo e interessante per i pazienti con BPCO. I concetti di fragilità, quasi fragilità e robustezza sono mutuati dalla geriatria che ha definito la fragilità uno stato di fisiologica vulnerabilità legato all’invecchiamento, ad un’alterazione della capacità di riserva omeostatica e alla ridotta capacità dell’organismo di far fronte a stress come le malattie acute. Si tratta perciò di una vera e propria sindrome riscontrabile in 10 persone su 100 di età superiore ai 65 anni, ove rischio di cadute, aumento del rischio di disabilità, di ricovero in ospedale e di morte aumentano invariabilmente. La definizione di “fragilità” è stata tuttavia molto dibattuta nella letteratura geriatrica. Infatti, la definizione si riferisce a quei soggetti di età avanzata, affetti da patologie croniche multiple, in cui l’invecchiamento e le malattie sono spesso complicati da problematiche socio-economiche. Questi fattori comportano un rischio elevato di rapido deterioramento della salute e dello stato funzionale ed un ingente consumo di risorse. In questo lavoro 2 gli autori suppongono che la fragilità sia un fattore plausibile nell’influenzare i risultati della riabilitazione, su cui vari fattori agiscono come possibile elemento a sfavore di efficacia. Il significato di questo studio è quindi quello di sottolineare la necessità di una valutazione multidimensionale del paziente BPCO disabile candidato alla riabilitazione per meglio catturare quelle caratteristiche che, all’interno della fragilità fisica, possono fornire indicazioni prognostiche e di esito. Gli autori propongono quindi un corposo “cruscotto” di criteri per caratterizzare i pazienti BPCO, tra cui: perdita involontaria di peso, stanchezza, scarsa attività fisica, lentezza, esaurimento, dispendio energetico settimanale, velocità di andatura, debolezza misurata con dinamometria, massa del muscolo scheletrico, sarcopenia, massima contrazione volontaria dei quadricipiti, test incrementale del cammino, punteggio di dispnea, comorbilità, attività della vita quotidiana, età, ostruzione spirometrica, ansia, depressione, stato di salute e impatto della malattia. Ci dimostrano come la prevalenza di fragilità sia pari a circa il 25% dei casi e che essa aumenta con l’aumentare dell’età, della gravità spirometrica, della dispnea e delle comorbilità. Lo stato di fragilità è uno dei fattori più robusti per predire aderenza e risultati alla riabilitazione. A partire da questi dati, comunque, la ricerca futura nel settore riabilitativo potrà cimentarsi su possibili aspetti organizzativi e strategici per fornire risposte più adeguate ai pazienti, cioè programmi più idonei e/o specifici alla gestione di questi aspetti di fragilità fisica specie quando dominanti. Va da sé che non si può prescindere, al fine del migliore risultato riabilitativo possibile, dalla capacità di individuare al meglio la “finestra” clinica e di disabilità del paziente quando non troppo fragile, ma nemmeno troppo performante. Il dato che ci indica che la fragilità può migliorare dopo riabilitazione fa riflettere su un possibile cambiamento transitorio di questo stato: nulla sappiamo infatti circa la durata dell’effetto positivo nel tempo prima di una nuova caduta in termini di fragilità fisica. Il merito di questa ricerca clinica è senza dubbio aver stimolato a pensare un linguaggio comune per la descrizione della salute e delle condizioni ad essa correlate (fragilità) allo scopo di migliorare la comunicazione fra i diversi utilizzatori di risorse, pazienti e operatori sanitari in primis.

Le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione offrono nuove opzioni per fornire assistenza sanitaria specializzata a distanza tra i quali il telemonitoraggio, un intervento complesso che comprende sia la trasmissione elettronica delle informazioni del paziente al sistema sanitario che la risposta da parte di un operatore sanitario. Purtroppo, i responsabili delle decisioni sanitarie si stanno affrettando a introdurre il telemonitoraggio come risposta per ridurre le ospedalizzazioni tra i pazienti con BPCO, senza aver prima attentamente soppesato tutte le prove scientifiche. I risultati contrastanti potrebbero essere dovuti al fatto che fino ad oggi la letteratura sul telemonitoraggio in pazienti con BPCO consiste principalmente in esperienze monocentriche svolte in piccole coorti di pazienti con diversi livelli di gravità della malattia e con studi solo nel breve termine; gli studi, inoltre, presentano differenze di impostazione, razionale, definizione del gruppo di controllo e metodologia usata. Una offerta di telemonitoraggio “uguale per tutti” per la BPCO sembra essere troppo semplicistica per una popolazione così eterogenea. Lo studio di Vianello 3 ha dimostrato che nelle zone in cui i servizi medici sono ben radicati, il telemonitoraggio non migliora significativamente la qualità della vita nei pazienti con BPCO che sviluppano riacutizzazioni; anche se non efficace nel ridurre le ospedalizzazioni, il telemonitoraggio può comunque facilitare la continuità delle cure durante la transizione ospedale territorio riducendo la necessità di precoci riammissioni in ospedale 3. Ci sono diverse possibili spiegazioni perché l’approccio del telemonitoraggio può essere non superiore alla gestione standard.

I pazienti con sintomi gravi, frequenti riacutizzazioni, multi-morbilità, e basso sostegno nella comunità potrebbero meglio beneficiare di telemonitoraggio. Le autorità sanitarie potrebbero tariffare, in funzione di diversi criteri di inclusione e in base al livello di necessità, diversi livelli di telemonitoraggio con più o meno tecnologia, con più o meno necessità di personale, più o meno durata di prescrizione: un servizio più aggressivo per pazienti grandi utilizzatori di assistenza sanitaria e un servizio meno aggressivo per gli altri.

L’uso di diverse generazioni di dispositivi e piattaforme di telemonitoraggio può fare la differenza nei risultati tra gli studi. Sistemi di 1a generazione permettono la raccolta di dati in modo asincrono; sistemi di 2a generazione sono dotati di una struttura analitica o decisionale non immediata con trasferimento sincrono regolato da algoritmi automatizzati. Sistemi di 3° generazione sono in grado di fornire costante analisi e supporto decisionale con piena autorità 24 ore/giorno, 7 giorni/settimana.

Per valutare il reale costo-efficacia del telemonitoraggio è importante capire che cosa si intende per “cura standard”. La cura standard varia notevolmente non solo tra i Paesi europei, ma anche all’interno di ciascun Paese. Se è disponibile un ampio pacchetto di assistenza primaria domiciliare 3 con forti legami nella comunità, il telemonitoraggio può forse aggiungere poco. L’assenza di prove definitive a beneficio del telemonitoraggio nella BPCO non può essere presa come prova di un’assenza di beneficio. Considerando la cura come un “pacchetto complessivo” da fornire al paziente, il telemonitoraggio può essere incluso come uno dei servizi offerti all’interno del pacchetto. Il punto chiave per ottimizzare l’uso del telemonitoraggio è quello di identificare correttamente chi sono i candidati ideali e per quanto tempo dovrebbero ricevere tale servizio. In altre parole, il dilemma attuale non è “telemonitoraggio - sì o no”, ma come usarlo in maniera matura ed equilibrata in modo tale da migliorare i risultati di salute per i nostri pazienti cronici.

Riferimenti bibliografici

  1. Moss M, Nordon-Craft A, Malone D. A randomized trial of an intensive physical therapy program for patients with acute respiratory failure. Am J Respir Crit Care Med. 2016; 193:1101-10.
  2. Maddocks M, Kon SSC, Canavan JL. Physical frailty and pulmonary rehabilitation in COPD: a prospective cohort study. Thorax. 2016; 71:988-95.
  3. Vianello A, Fusello M, Gubian L. Home telemonitoring for patients with acute exacerbation of chronic obstructive pulmonary disease: a randomized controlled trial. BMC Pulm Med. 2016; 16:157.

Affiliazioni

Michele Vitacca

Pneumologia Riabilitativa, ICS Maugeri IRCCS Lumezzane (Bs)

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2017

Come citare

Vitacca, M. (2017). Pneumologia Riabilitativa e Assistenza Domiciliare. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 32(1), 10-12. https://doi.org/10.36166/2531-4920-2017-32-07
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