Articolo di revisione
Pubblicato: 2014-08-15

La comunicazione in Pneumologia, con particolare riguardo alle cattive notizie

II UOC Pneumologia Oncologica, Az. Osp. S. Camillo Forlanini, Roma
A.I.P.O. Gruppo di Studio Educazionale, Prevenzione ed Epidemiologia
Fondazione R. Piatti, ONLUS Varese
II UOC Pneumologia Oncologica, Az. Osp. S. Camillo Forlanini, Roma
Comunicazione Pneumologia Cattive notizie

Abstract

La comunicazione è diventata fondamentale nel rapporto medico paziente. Gli AA esaminano le difficoltà nell’atto di comunicare in campo pneumologico con particolare riguardo alla comunicazione delle cattive notizie. Propongono una linea di comportamento sulla scorta dell’esperienza personale e della letteratura. Dall’analisi emerge come sia necessario preparare il medico anche a questo non facile compito, unendo alla tecnica una maggiore sensibilità umana.

Introduzione

La comunicazione alla fine del secolo scorso, ed ancora di più in questo inizio di secolo, ha acquisito un’importanza che va ben al di là dell’oggetto della comunicazione stessa. Siamo bombardati da messaggi, spesso contraddittori, talvolta falsi o manipolati, la cui veridicità si basa sul “com” vengono presentati e da chi. Crediamo a quello che ci viene detto perché ci viene detto in modo più convincente, perché il “comunicator” trova le chiavi psicologiche per aprire il nostro sistema di protezione. Ne abbiamo prove ogni momento ed in ogni campo, dalla pubblicità, archetipo della “comunicazione manipolata”, alla politica, ultima spiaggia cui sono giunti fantasiosi imbonitori.

La Medicina non poteva sottrarsi all’esigenza di comunicare sé stessa e le proprie verità, attingendo al patrimonio fantastico pubblicitario.

La Medicina non poteva sottrarsi all’esigenza di comunicare sé stessa e le proprie verità, attingendo al patrimonio fantastico pubblicitario. Ma la comunicazione investe più seriamente anche il rapporto medico paziente in un tempo in cui siamo usciti dalla logica protettiva paternalistica imperante fino agli anni ’90. Allora il medico decideva per il meglio, tutt’al più coadiuvato da parenti “esperti”, esercitando il diritto di decidere la terapia e finanche se comunicare o tacere pietosamente una verità drammatica. L’autonomia del paziente allora era vista con sospetto e considerata sinonimo di abbandono, solitudine ed isolamento, ben lontana dalla libertà di capire e decidere. Oggi i mutamenti in campo culturale, la globalizzazione dell’informazione e la sua facilità di acquisizione, la commistione fra etnie differenti, hanno imposto il diritto dovere dell’informazione. Il paziente ha preso coscienza della malattia, qualunque sia la gravità del problema e molto frequentemente, anche se non sempre, vuole partecipare e condividere la sua gestione, controllarla, verificare l’appropriatezza e l’efficacia scientifica della cura, e rivalersi sul medico in caso di errore. Tanto più è grave la malattia tanto maggiore è l’esigenza di informazione e di condivisione 1.

D’altro lato questa esigenza generica proviene da soggetti con caratteristiche culturali, geografiche, di età ed istruzione diverse, così come diverso è il contesto familiare all’interno del quale si muove. Per affrontare correttamente il problema, al di fuori da dogmatismi anacronistici, è necessario tener conto di tutte queste variabili costruendo un rapporto di relazione vero e proprio. Alla base di tale legame sta la centralità del paziente e la costruzione di un rapporto dinamico e flessibile in cui trovino adeguato spazio elementi tecnici espressi in modo comprensibile ed assimilabile, la capacità di vedere la malattia con il punto di vista psicologico e mentale del paziente, e la percezione delle emozioni del paziente al fine di condividerle. Quest’ultima sensibilità, l’empatia, cifra tutta la capacità comunicazionale e finisce per rafforzare tutto il percorso di relazione. Da questi brevi cenni appare chiaro come costruire un tale percorso richieda una preparazione specifica oggi fortemente carente nella cultura medica universitaria.

La Pneumologia presenta nel suo ambito un panorama sfaccettato di problematiche in cui lo specialista passa dalla sfera educazionale delle patologie asmatiche e riabilitabili a quelle di maggiore gravità come l’insufficienza respiratoria, le patologie interstiziali, ed il tumore polmonare 2. Cambiando la gravità della patologia e gli obiettivi dell’informazione, cambia anche il livello empatico. Spesso nell’ambito della stessa patologia dobbiamo adeguare la comunicazione a livelli di gravità differenti, modificando anche il rapporto di relazione. Scopo di questo lavoro è rendere più facile il percorso metodologico alla ricerca della costruzione del rapporto ideale che da un lato soddisfi il paziente qualunque sia l’esito della sua malattia, dall’altro permetta al medico di tenere la mano del paziente guardandolo negli occhi.

Per Aristotele, figlio del medico Nicomaco, era già ben chiaro il rapporto che si stabiliva fra suo padre ed i pazienti. Il rapporto era basato sull’amicizia, anche se altrettanto palese era che tale rapporto era fortemente sbilanciato, tra attori disuguali. Il fine ultimo era naturalmente la conservazione del bene supremo della Salute, ma da un lato era presente la Conoscenza e la volontà di adoperarla altruisticamente, dall’altra la condizione di dipendenza non solo psicologica ma anche fisica del malato che cerca una soluzione ai propri problemi nel sapere altrui. Come riequilibrare l’asimmetria del rapporto? Aristotele risolve brillantemente il quesito attribuendo al medico l’assunzione di responsabilità: in questo modo il paziente affida la sua Salute a chi se ne prende carico globalmente in modo non dissimile dall’antica Cina in cui il medico veniva retribuito solo durante il periodo di salute del paziente. Il medico quindi garantisce al paziente il proprio impegno, l’impiego della propria dottrina come se fosse egli stesso in gioco.

Facciamo ora un salto fino al secolo dei Lumi quando, con l’avvento della moderna farmacologia e della migliore comprensione della fisiopatologia, si passa da una medicina osservazionale ad una medicina interventistica. Al rapporto amicale si è andato sostituendo un rapporto basato sulla differenza fra Sapere ed Ignoranza, talvolta con un Sapere millantato e coperto dal mantello della Magia ben sostenuto dall’Ignoranza del paziente. L’empirismo illuminista, se da un lato promuove la ricerca alchemica liberandola da derive magiche, dall’altra apre la strada alla farmacologia sperimentale poggiata su basi fisiopatologiche concrete, rielaborando gli antichi rimedi galenici. Oggi quell’esperienza prevalentemente individuale è stata sostituita da una Medicina Basata sull’Evidenza, frutto di una rigida elaborazione statistica di ricerche sperimentali che determinano l’elaborazione di Linee Guida sia diagnostiche sia terapeutiche.

Il tecnicismo imposto da questo comportamento, oltre ad altri difetti, ha finito però col mettere in secondo piano l’abilità diagnostica semeiologica fisica. La necessità di acquisire risultati certi, incontrovertibili e riproducibili attraverso l’impiego di tecniche strumentali, ha reso meno necessaria la visita del paziente, perdendo quel rapporto diretto che il contatto delle mani sul corpo indifeso del paziente contribuiva a creare, mettendo in contatto due realtà spirituali e psicologiche. Nonostante questo, nell’immaginario collettivo, il rapporto medico-paziente poggia ancora oggi su quel contatto che pur non avendo nulla di taumaturgico conserva ancora un che di salvifico.

Il rapporto medico-paziente oggi è mediato e condizionato da molteplici attori: il medico specialista, il medico che esercita la medicina non convenzionale, infine l’informazione di massa attraverso conoscenti, familiari e soprattutto la Rete.

In realtà il rapporto medico-paziente oggi è mediato e condizionato da molteplici attori: il medico specialista, in particolare il radiologo ed il patologo, il medico che esercita la medicina non convenzionale, infine l’informazione di massa attraverso conoscenti, familiari e soprattutto la Rete. Dal 2000 al 2005 c’è stato un incremento del 161% dei siti dedicati alla salute con una spiccata preferenza per quelli specialistici 3. Nonostante quanto appena accennato, le organizzazioni sanitarie continuano a considerare fondamentale la centralità del ruolo del paziente nell’evoluzione dell’approccio del medico nel corso della consultazione sanitaria 4. È indubbio che ancora questo atteggiamento non sia largamente diffuso e che a tale scopo sia indispensabile una solida preparazione specifica.

Se dovessimo semplificare in modo paradossale la qualità fondamentale su cui basare la costruzione di un rapporto corretto, potremmo dire che molto dipende dall’abilità di vedere le situazioni dal punto di vista dell’interlocutore. Affinare questa capacità richiede impegno costante, motivazione ed un esercizio quotidiano che trasformi una tecnica comportamentale in uno stile di vita. Del resto il paziente cerca nel medico non solo un tecnico esperto ma anche una persona dotata di qualità umane che lo stile comunicativo rivela ed esalta 5. Anche la compliance del paziente viene favorevolmente influenzata dal livello di empatia manifestato dal medico 6.

Capire il punto di vista altrui, immedesimarsi nell’interlocutore, prevede un processo di analisi molto complesso.

Capire il punto di vista altrui, immedesimarsi nell’interlocutore, prevede un processo di analisi molto complesso 7. Questo processo talvolta viene attivato spontaneamente, più spesso è conseguenza dell’esperienza del medico che in modo inconscio legge il paziente durante le fasi preliminari del colloquio; richiede comunque grande attenzione e concentrazione per cogliere quei segnali visivi o comunque sottoposti ai sensi (percezione), ai processi mentali del paziente (analisi cognitiva) ed infine quella capacità di cogliere l’espressione fisica articolata espressa dal paziente (analisi comportamentale). Non deve mancare, ed è forse il compito più complesso, “la capacità di percepire le emozioni dell’Altro condividendole empaticament” (Carnegie D.) 8.

Se la comunicazione è il moderno credo del nostro secolo, esistono notizie la cui rivelazione diventa difficile sia per chi deve ascoltare sia per chi deve comunicare. Quest’ultimo spesso non si sente all’altezza o, più semplicemente, non vuole assumersi il carico implicito in questo compito e delega al caso o, nei casi peggiori, ad accenni frettolosi ed incompleti, quello che è invece un dovere medico: la comunicazione delle cattive notizie. In Italia il Codice Deontologico 9 regola il nostro comportamento ma è anche lo specchio fedele dell’orientamento etico della società sul problema salute e sul difficile rapporto che vive il medico sempre sull’orlo della violazione, a fin di bene, della libertà individuale. Fino al 1988 il medico poteva decidere di nascondere una verità troppo dolorosa per il paziente, esercitava il suo potere in modo completo praticando al paziente le indagini che riteneva opportune in una sorta di autonomia decisionale in nome e per conto del paziente e del suo bene. Nei dieci anni seguenti incomincia a diffondersi una sorta di insicurezza nell’assolutismo dell’atto medico e nella correttezza di poter sostituire il giudizio del paziente. Compare una forma di mediazione parentale con cui cercare un’opzione sinergicamente attiva sia per la pratica terapeutica e/o diagnostica soprattutto se invasiva, sia per la comunicazione in cui la verità diventa ora essenziale se il giudizio del medico e della famiglia ritengono il paziente in grado di tollerarne il peso, sempre con un addolcimento pietoso. Nel 1998 la realtà sociale, l’imitazione di contesti legali d’oltreoceano, la necessità di restituire al paziente una dignità a lungo esautorata inducono un aggiornamento del Codice. Compare l’obbligo del Consenso Informato per tutti gli atti medici; intendendo per informato, termine sintetico e poco elegante, una consapevolezza e la possibilità di esercitare il libero arbitrio che da profano deve essere trasformato in tecnico con l’ausilio attivo del medico. È implicito, e soprattutto evidente per chi si trova ogni giorno ad esercitare il proprio diritto dovere all’informazione, quanto sia impegnativo e dispendioso in termini di tempo, essere all’altezza delle giuste aspettative del paziente. Naturalmente alla base della corretta informazione sugli atti diagnostici e terapeutici va posta la comunicazione della diagnosi e relativa prognosi. Spesso è impegnativo solo sul piano tecnico ed è indispensabile per ottenere la compliance, terapeutica ad esempio, del paziente o dei familiari. Pensiamo alla necessità di educare i genitori di un bambino asmatico a gestire correttamente le crisi occasionali senza farsi prendere dal panico, o alle indicazioni comportamentali in una malattia da reflusso gastro esofageo. Altre volte è necessario spiegare potenziali complicanze di atti diagnostici invasivi senza avere ancora una diagnosi certa ma solo con un sospetto che se confermato può cambiare l’aspettativa di vita del paziente.

Il dato che emerge costantemente è che il livello di preparazione del medico non può essere superficiale od occasionale.

Il dato che emerge costantemente è che il livello di preparazione del medico non può essere superficiale od occasionale. L’informazione si trasforma in una sorta di esame tanto più impegnativo quanto più grave è la patologia. Uno studio inglese del 2001 conferma che il 98% dei 2331 pazienti intervistati desidera avere informazioni veritiere sulla diagnosi; i più motivati appartengono alle classi socialmente e culturalmente più elevate 10. Uno studio più recente anglosassone, documenta che 108 pazienti oncologici in cura da almeno 3 anni pongono fra le prime 5 priorità 4 items basati sull’informazione da parte di medici “esperti e sinceri” 11.

In Italia il principio del consenso informato è stato inserito nell’art. 32 della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legg”, correlato con l’art. 13 della stessa Costituzione che afferma l’inviolabilità della libertà personale.

Il Codice di Deontologia Medica Italiano sancisce il principio secondo cui è vietato al medico di intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente anche in caso di pericolo di vita. L’attuale Codice risale al 2006 e ne è in corso una revisione le cui bozze su questo argomento non si discostano dalla versione vigente.

Viene ampiamente sottolineato che l’informazione data al paziente costituisce parte integrante della prestazione medica, tanto da divenire essa stessa una prestazione sanitaria, al pari dell’accertamento diagnostico e dell’intervento terapeutico.

Per raccogliere un valido consenso è indispensabile che il medico abbia fornito informazioni non solo veritiere, ma anche complete ed esaustive.

Tutte le informazioni ritenute necessarie, devono essere rese al paziente in modo chiaro e commisurato alla sua capacità di comprensione da intendersi in senso medico e, cioè, non solo avendo riguardo al livello intellettuale del paziente, ma anche tenendo conto del suo stato emotivo e psicologico. L’informativa e il consenso sono atti indispensabili e necessari per rendere legittimo l’atto medico. Ciò non significa, però, che l’informativa e il consenso debbano essere resi necessariamente in forma scritta. Anzi, nella generalità dei casi è sufficiente che informativa e consenso siano prestati in forma orale.

La forma scritta diventa necessaria perché vi è una legge dello Stato che la rende obbligatoria, o perché il Codice di Deontologia Medica la richiede in situazioni particolari. Al di fuori di queste ipotesi, il consenso può essere raccolto in forma orale, fermo restando che se il medico ritiene, in scienza e coscienza e motivatamente, di formalizzare tale consenso con un atto scritto, gli è comunque consentito farlo.

Rileggendo tutta la normativa e la casistica relativa appare evidente il rischio di mettere a repentaglio la costruzione di un buon rapporto di comunicazione tra medico e paziente qualora ci si affidasse all’aspetto meramente “legal” e “burocratico” che pure è presente nell’adempimento della raccolta del consenso informato. Ancora una volta è indispensabile che il medico utilizzi invece tale strumento per approfondire la conoscenza del paziente, delle sue reazioni anche emotive e per fornire sempre e comunque le migliori informazioni nel modo più efficace 12.

Un argomento a parte deve essere considerata l’evoluzione prognostica e la sua rivelazione. Va sottolineato che non sempre il medico è un buon profeta né a medio ma soprattutto a breve termine. Le previsioni a lungo e medio termine non possono fare a meno di un approccio statistico, o empirico individuale o ufficiale basato sui dati raccolti dalla letteratura. Uno studio prospettico condotto su pazienti oncologici polmonari afferma che solo nel 20% le previsioni prognostiche si sono rivelate corrette, mentre nel 63% sono risultate in eccesso indipendentemente dalla specializzazione del medico 13. Il problema della comunicazione della prognosi parte però dalla scelta o meno di comunicare; secondo Back alle tre opzioni intuitive, glissare, manifestare un ottimismo talvolta surreale o un realismo crudele ma asettico, se ne aggiunge una quarta non meno praticabile: comunicare al paziente quello che vuole sapere senza abbandonare la speranza 14.

Ma in Italia come ci comportiamo? Uno studio condotto da Grassi nel 2000 per via postale su 675 medici dell’Italia settentrionale di varia specialità ha documentato che il 45% riteneva giusto rivelare la verità al paziente ma solo il 25% lo faceva regolarmente; il 33% riteneva che il paziente non volesse sapere (soprattutto fra i medici anziani); il 50% individuava nel medico di famiglia il comunicatore più adatto, mentre proprio fra questi ultimi era più alta la percentuale degli oppositori alla verità (nihil sub sole novi) 15. Oggi le cose sono molto cambiate: un rapporto firmato dal Censis nel 2011 documenta che l’85,1% dei pazienti oncologici è informato sui farmaci e le terapie praticate mentre il 75,2% è coinvolto nelle scelte terapeutiche 16.

Come comunicare

Tutti pensiamo di saper comunicare. Nulla di più impreciso: comunicare è una scienza oltre che un’arte. Sottostà a regole molto precise che sono state individuate e perfezionate nel corso degli ultimi 50 anni, pur avendo radici molto antiche che affondano nella retorica classica. Naturalmente va distinta la parte verbale in cui esprimiamo il contenuto della comunicazione e la parte non verbale a cui affidiamo la costruzione del rapporto di relazione: l’uomo è l’unico capace di utilizzare entrambi i linguaggi mescolandoli. Quello che noi consideriamo fondamentale, nel rapporto di comunicazione inteso globalmente, la parte verbale che potremmo trascrivere, in realtà ha un peso molto modesto: solo il 7% di tutto il processo relazionale dipende da essa.

Tutti pensiamo di saper comunicare. Nulla di più impreciso: comunicare è una scienza oltre che un’arte.

Molto più impattante risulta la parte paraverbale (il 38%) legata al tono ed al timbro della voce e la fase non verbale, legata agli atteggiamenti fisici ed ai movimenti del corpo (55%) 17. Per comunicare è dunque necessario combinare i due linguaggi passando indifferentemente il messaggio che vogliamo trasmettere dall’uno all’altro mezzo senza contraddizioni. Qui compare il primo ostacolo, perché ambedue i linguaggi, verbale e non verbale, sono spesso inadatti, il primo a comunicare i sentimenti ed il secondo a corroborare i contenuti. Tutti siamo consapevoli dell’ambiguità insita in alcuni messaggi: il pianto è compatibile con il dolore e la disperazione ma anche con la gioia e la commozione, il riso è tipico della felicità ma anche dell’imbarazzo fino all’isteria. La riservatezza può significare indifferenza ma anche tatto ed educazione. Spesso non siamo sufficientemente padroni dei nostri mezzi verbali e fisici da trasmettere dei segnali coerenti, talvolta l’insincerità del nostro sentire traspare al di là delle nostre parole di circostanza, oppure la stanchezza o la mancanza di concentrazione vengono trasmessi impietosamente dai nostri atteggiamenti, sbadigli o stiracchiamenti (!) in momenti cruciali.

Eppure è assolutamente indispensabile comprendere che il nostro compito informativo, soprattutto quando l’oggetto della comunicazione è una malattia a prognosi infausta, non può prescindere dalla costruzione di una relazione, cercando di soddisfare i bisogni comunicativi dell’interlocutore. La relazione è fondamentale per l’accettazione e l’adattamento alla malattia da parte del paziente.

È indispensabile comprendere che il nostro compito informativo, soprattutto quando l’oggetto della comunicazione è una malattia a prognosi infausta, non può prescindere dalla costruzione di una relazione, cercando di soddisfare i bisogni comunicativi dell’interlocutore.

Il nostro campo di azione è l’apparato respiratorio; quando viene colpito da una patologia, soprattutto quando è grave ed evolutiva, il paziente è sintomatico, tossisce, è dispnoico. Questo gli dà la percezione della perdita funzionale correlata alla malattia e gli prospetta concretamente la possibilità di soffocare. Nei casi più avanzati, selezionando i pazienti si può introdurre il concetto di palliazione dei sintomi rassicurando il paziente discutendo apertamente i passaggi più difficili della transizione. Oggi esiste una maggiore disponibilità nell’organizzazione delle cure palliative 18, ed è più facile introdurre tale potenzialità fin dall’esordio clinico della malattia come consigliato modernamente. È comunque importante che, quando comunichiamo una diagnosi impegnativa, organizziamo da subito un programma terapeutico concreto, basato su una scaletta temporale preordinata con appuntamenti precisi. Anche i rischi e le complicanze vanno esplicitati senza sminuirli od enfatizzarli. Quello di cui il paziente ha bisogno è un discorso semplice ed onesto, non esageratamente pessimista o difensivo od onnipotente ed ottimista, un discorso che sia aperto a modifiche del piano terapeutico in caso di necessità o per andare incontro alle esigenze espresse dal paziente stesso. Un momento particolare è quando il paziente torna a casa dopo il ricovero in Ospedale. Il momento della dimissione, del distacco dall’ambiente rassicurante del ricovero va mediato con le esigenze del paziente e le problematiche causate dalla malattia; il paziente deve poter esprimere la propria angoscia e la propria aggressività nel disappunto per un apparente abbandono. Molto risiede nella possibilità di organizzare una rete assistenziale e nel coinvolgimento dei familiari, nel comprendere e collaborare.

Altrettanto impegnativa è la fase del peggioramento e della possibile interruzione delle cure, non più efficaci ma potenzialmente tossiche. In questa fase la collaborazione dei familiari va cercata e condiviso con loro il livello di comunicazione possibile. Non si deve cedere, se possibile, alla volontà protettiva di celare la verità, convincendo i parenti della necessità di rispettare la dignità del paziente. Ma non va neanche forzata una posizione pervicacemente contraria, condivisa largamente dalla famiglia. È quindi anche con un’ottica educazionale che si devono coinvolgere i parenti. Comunicare la prossimità della morte, quando necessario, è un evento che pone il paziente di fronte alla consapevolezza del proprio destino nel momento in cui è più forte la volontà di conservazione propria dell’essere umano. Non esiste una ricetta per risolvere positivamente questa situazione, in quanto qualsiasi tentativo di comprensione suona falso per ovvi motivi. L’unico consiglio possibile è non sforzarsi di negare la paura della morte 19 20.

Quanto sia complesso e difficile comportarsi empaticamente emerge da uno studio di Morse in cui sono stati video registrati ed esaminati venti colloqui fra pazienti affetti da neoplasia polmonare inoperabile e medici esperti. Nel corso dei colloqui sono emerse 384 opportunità empatiche, momenti in cui il paziente esprime un proprio disagio, una richiesta d’aiuto, in modo esplicito od implicito ed al quale il medico può dare una risposta empatica o meno. Nonostante i medici fossero esperti, solo il 10% delle domande sono state riconosciute come tali, ed hanno avuto risposte 21. Il termine “empatia” è nato negli anni ’20 per descrivere la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui. Nelle intenzioni del primo utilizzatore del termine, E.B. Titchener, l’empatia, in alternativa alla simpatia, attraverso l’immedesimazione nell’altro, permetteva all’osservatore di percepire le sensazioni emotive e condividerle. Tale capacità immedesimativa ha un costo in termini emotivi molto elevato. Oggi, più modernamente, si parla di empatia matura, in cui si mantiene la capacità di identificarsi nel soggetto interlocutore, mantenendo però un distacco essenziale che permette di sentire ma non di essere coinvolti emotivamente. Come è comprensibile, raggiungere una buona pratica è oltremodo difficile e non può essere oggetto di improvvisazione: la capacità istintiva di capire, che è propria di molti di noi, va affinata e coltivata per recepire compiutamente il messaggio empatico 22.

La scuola anglosassone, pragmaticamente, ha costruito percorsi semplici ed alla portata di tutti per sottolineare le modalità attraverso cui comunicare soprattutto le cattive notizie. Uno schema fra i più seguiti per la sua efficacia e semplicità è quello suggerito da W.F. Baile (Tabella I) 23. Questo sistema parte dall’organizzazione dell’ambiente (setting), attraversa la comprensione della volontà del paziente e delle sue conoscenze (perception, invitation), comunica le informazioni in modo semplice e piano (knowledge) e infine pianifica il percorso terapeutico costruendo un diario minuzioso dell’impegno futuro (strategy) dopo essersi assicurato della corretta comprensione di quanto comunicato (summary). Il sistema SPIKES (acronimo delle varie fasi) si presenta come un sistema facilmente seguibile e riproducibile, ma in letteratura ne sono presenti numerosi altri con lievi differenze. Adottarne uno ed applicarlo serve ad uniformare il meccanismo di comunicazione ed a permettere a tutti i componenti dell’equipe medica di cercare una stessa modalità espressiva, nel rispetto delle individualità di ciascuno, rispettosa del paziente.

In epoca recente è stato proposto, ovviamente in modo provocatorio ma sollevando un problema serio, di aggiungere allo schema illustrato nella Tabella un’altra “S”, quella che simboleggia il dollaro ($), in quanto la medicina moderna, con molto anticipo negli USA ma ormai anche in Europa ed in Italia, deve sempre più spesso fare i conti con il costo delle cure che tende a lievitare in maniera esponenziale ed il medico attualmente deve anche tenere conto di questo aspetto nelle opzioni che sottopone al paziente riguardo alle possibili scelte terapeutiche 24.

Pensare che la comunicazione fra medico e paziente si riduca ad un mero esercizio tecnico, di applicazione di regole e paradigmi o a studiare a tavolino atteggiamenti e posizioni è profondamente sbagliato.

Da questo breve excursus, appare chiaro quanto sia complessa la comunicazione fra medico e paziente, e quanto sia indispensabile che essa avvenga correttamente. Pensare che però si riduca ad un mero esercizio tecnico, di applicazione di regole e paradigmi o a studiare a tavolino atteggiamenti e posizioni è profondamente sbagliato. La costruzione di una relazione impone un coinvolgimento emotivo che trova nell’espressione verbale e non verbale lo specchio coerente del moto dell’anima. Tutto questo prevede un esercizio costante ed una preparazione prima di tutto culturale che deve iniziare a livello universitario. Si tratta di argomenti difficili, di fronte ai quali il medico oggi tende a declinare la propria incompetenza od a manifestare insofferenza perché viene messo di fronte alla propria inadeguatezza 25. Anche in questo campo prevale la tendenza alla deresponsabilizzazione che sta lentamente ed inesorabilmente svuotando molte professioni di compiti qualificanti a favore di professioni emergenti, meno preparate ma più aggressive e desiderose di conquistare appeal agli occhi degli utenti. Talvolta la presenza di un gap culturale evidente finisce per compromettere soprattutto l’interesse dei pazienti.

L’auspicio è che le Associazioni Scientifiche prendano l’iniziativa di stimolo culturale che è loro, sensibilizzando i propri associati ed organizzando corsi di aggiornamento e preparazione per i giovani che si affacciano oggi alla moderna medicina pneumologica 25-27.

Figure e tabelle

Setting: Far accomodare il paziente in uno studio confortevole, tranquillo senza fonti di interruzione. Perception: Capire che cosa il paziente sa della propria situazione. Invitation: Prima di parlare cercare di capire che cosa il paziente desidera sapere circa la propria malattia. Knowledge: Spiegare al paziente la malattia usando termini semplici ed adatti alla cultura del paziente. Non enfatizzare né sminuire la gravità della patologia. Emotions: Riconoscere le reazioni emozionali, comprenderne la ragione ed offrire una risposta empatica. Strategy and Summary: Costruire e pianificare un percorso terapeutico assistenziale concreto e tangibile. Chiedere al paziente che cosa ha capito di quanto detto in precedenza.
Tabella I.Il sistema SPIKES di W.F. Baile et al. 23.

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Affiliazioni

Luigi Portalone

II UOC Pneumologia Oncologica, Az. Osp. S. Camillo Forlanini, Roma

Cristina Cinti

A.I.P.O. Gruppo di Studio Educazionale, Prevenzione ed Epidemiologia

Margherita Neri

Fondazione R. Piatti, ONLUS Varese

Silvia Portalone

II UOC Pneumologia Oncologica, Az. Osp. S. Camillo Forlanini, Roma

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2014

Come citare

Portalone, L., Cinti, C., Neri, M., & Portalone, S. (2014). La comunicazione in Pneumologia, con particolare riguardo alle cattive notizie. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 29(4), 185-191. https://doi.org/10.36166/2531-4920-2014-29-45
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