Medical Humanities e Pneumologia
Pubblicato: 2014-08-15

Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o cure palliative?

Cattedra di Bioetica, Università di Padova

Abstract

In un tempo in cui si riduce il numero delle “morti inaspettate” e si amplia molto quello delle “morti prevedibili”, è possibile individuare degli indicatori prognostici per aiutare a riconoscere i malati che si avvicinano alla fase finale della vita con l’intento di impostare una pianificazione condivisa delle cure e una loro organizzazione quanto più coordinata possibile? È questa in sintesi la domanda con cui si confrontano gli estensori del Documento promosso nel corso del 2013 dalla SIAARTI e condiviso da altre importanti società medico-scientifiche tra cui l’AIPO, Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative? L’articolo analizza la proposta di cui il Documento si fa portatore, ne sottolinea i meriti, suggerendo insieme alcune indicazioni di ordine sia culturale che etico per rinforzarne la consistenza teorica.

Articolo

Un recente studio promosso dai Medici di Medicina generale riguardante le cause di morte oggi di maggiore incidenza ci dice che su 20 decessi in cui ogni anno un medico si trova direttamente coinvolto, 5 sono causati da cancro, 5 da insufficienze croniche, 8 da fragilità, comorbilità e demenza. Solo 2 decessi sono causati da morte improvvisa. Una situazione del tutto simile ad altri paesi del mondo occidentale 1. Si tratta di dati estremamente significativi, da cui comunque non si può prescindere se si voglia seriamente rivedere il modo con cui la medicina continua a gestire l’assistenza in fase terminale, ignorando in molti casi questi dati. È quanto invece hanno inteso prendere in considerazione gli estensori di un Documento promosso dalla SIAARTI e condiviso da altre importanti società medico-scientifiche tra cui l’AIPO. Il titolo completo del Documento è Grandi insufficienze d’organo “end stag”: cure intensive o cure palliative? “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura 2. La questione che il Documento affronta è presto detta: in un tempo in cui si riduce drasticamente il numero delle “morti inaspettat” e si amplia molto quello delle “morti prevedibili”, è possibile individuare degli indicatori prognostici per aiutare a riconoscere i malati che si avvicinano alla fase finale della vita al fine di impostare una pianificazione condivisa delle cure e una loro organizzazione quanto più coordinata possibile?

È possibile individuare degli indicatori prognostici per riconoscere i malati che si avvicinano alla fase finale della vita al fine di impostare una pianificazione condivisa delle cure?

Una questione di non poca rilevanza. Il miglioramento delle condizioni di vita e dell’assistenza sanitaria sta comportando un progressivo allungamento della vita media dei malati affetti da insufficienze d’organo: cardiaca, respiratoria, neurologica, renale, epatica. La storia naturale di queste insufficienze non si è però modificata, continuando a essere caratterizzata da riacutizzazioni intercorrenti, ciascuna seguita inevitabilmente da un globale, progressivo scadimento della qualità della vita. Così nella traiettoria di malattia di queste persone è possibile individuare un punto in cui il livello di gravità rende più rare le remissioni, ne abbrevia la durata e provoca un aumento del numero dei ricoveri e della durata della degenza. Inizia così la fase end stage delle grandi insufficienze d’organo.

Qual è in questi casi la cura più appropriata?

Il Documento ha indubbi meriti: (a) affronta una questione che, anche se avvertita in maniera sempre più sentita e diffusa, sia all’interno del contesto sanitario, che del più ampio contesto sociale e culturale, per varie ragioni non viene adeguatamente analizzata e discussa; (b) è stato elaborato con un metodo di lavoro che ha coinvolto saperi scientifici e sensibilità etico-professionali diversi, valorizzandoli nelle loro specificità e tuttavia indirizzandoli tutti verso la centralità della persona del paziente; (c) invita la medicina a prendere in considerazione l’opportunità di compiere scelte di trattamento palliativo in quanto più appropriate di quelle intensive per pazienti che per gravi insufficienze di organo si prevede siano giunti alla fase finale della vita; (d) assume che la medicina non sia una mera tecnica, disponibile a ogni uso, ma una pratica normativa con una sua interna moralità, trovando in questo la legittimazione del diritto/dovere di fare una chiara proposta terapeutica; (e) chiede che questa proposta terapeutica venga presentata e discussa con il paziente e con i suoi familiari nella prospettiva di una pianificazione condivisa delle cure; (f) intende, infine, promuovere negli operatori sanitari competenze per “accompagnar” pazienti e familiari in una fase, “così delicata e importante della loro esistenza”, qual è la fase finale della vita.

In sintesi: una proposta che fa dell’“accompagnamento” l’obiettivo fondamentale dell’assistenza nella fase finale della vita, attribuendo a questo approccio clinico ed etico al tempo stesso il senso di un vero e proprio paradigma di riferimento 3.

A questa breve analisi delle ragioni che rappresentano i meriti del Documento, vorrei però aggiungere alcune considerazioni critiche. Non entro nel merito degli aspetti strettamente medici. Al riguardo dico solamente che sarebbe opportuno che alcune affermazioni venissero meglio evidenziate per non ingenerare eventuali equivoci, in particolare in chi, pregiudizialmente contro i presupposti di natura etica cui il Documento si ispira, lo potrebbe attaccare a livello di validità scientifica.

Tre in particolare: (a) l’idea che la prognosi per quanto basata su indicatori clinici oggettivi rimane sempre per sua natura difficile; (b) l’idea che obiettivo della pianificazione delle cure non è tanto fissare una tempistica certa, quanto prevedere i bisogni del paziente; (c) l’idea che il criterio determinante per giustificare, anche in tempi di “spending review”, un trattamento di tipo “palliativo” piuttosto che “intensivo” debba essere di natura clinica, non economica.

Riconoscendo dunque l’importanza che, a queste condizioni, riveste, da una parte, l’attenzione a identificare quei pazienti che, per gravi insufficienze di organo, si trovano nella fase finale della vita, e assumendo, dall’altra, l’approccio dell’accompagnamento come il paradigma più adeguato, si tratta di identificare le sfide che la realizzazione di questo approccio solleva.

1. La prima sfida da affrontare si riferisce a quello che rappresenta l’ideale regolativo cui tende la proposta del Documento: la pianificazione condivisa delle scelte di cura. Si fa presto a enunciarlo questo ideale, è difficile però realizzarlo, quando, volendo coinvolgere paziente e famiglia nella pianificazione delle cure che siano più appropriate a una fase che si presenta ormai come finale, si deve onestamente parlare della vicinanza della morte. Sta proprio qui il problema: come parlare della morte all’interno di una cultura che nei suoi confronti ha adottato la strategia della “negazion” (P. Ariès)? Con quali parole parlarne se l’altra strategia che ha prevalso nella nostra cultura è quella della “privatizzazion” (N. Elias)? Si tratta come si vede di una sfida di ordine culturale che si staglia su un orizzonte molto più ampio dell’orizzonte sanitario, ma che tuttavia interviene in maniera decisiva a modellare l’attuale contesto del morire.

Come parlare della morte all’interno di una cultura che nei suoi confronti ha adottato la strategia della “negazion” ?

Proviamo a focalizzare questo contesto a partire innanzitutto dalle mutate condizioni legate ai nuovi trend epidemiologici. Si vedrà che un aspetto nuovo che lo caratterizza è il fatto che, data la crescente incidenza delle malattie croniche e degenerative unite agli attuali trattamenti medici che permettono di rallentarne il processo, in molti casi la fase finale della vita subisce un notevole “prolungamento”. E così capita che le “prov” che da sempre sono legate alla fase finale della vita assumano, per la conseguente “diluizion” nel tempo che questo prolungamento comporta, un peso molto più grave che in passato. La cosa più drammatica, tuttavia, non è tanto questo prolungamento, quanto il fatto che questo fenomeno si verifica proprio quando ci troviamo a essere maggiormente sguarniti nei confronti della morte, perché più soli. Sia chiaro, non la solitudine espressa nel fatto che ognuno è chiamato a morire da solo, quanto la solitudine collegata alla mancanza di un orizzonte simbolico capace di far “vivere socialment” il morire e che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il paziente giunto alla fase finale della vita. C’è chi di questa “desimbolizzazion” ne fa un elemento positivo, proponendo la “naturalizzazion” della morte come un fattore di liberazione: liberazione dalla paura intrinsecamente legata a certe immagini mitiche della morte. È un aspetto a cui non mi sembra estraneo il Documento stesso, quando in un allegato, proprio quello relativo alle cure palliative, parla della morte come di una “cosa normal”. Non mi sembra francamente questo il messaggio che viene dalla cultura delle cure palliative. Tale cultura a mio parere non propone affatto, almeno nelle sue espressioni più significative, la riduzione della morte a “cosa natural”, a “cosa normal”. L’elemento che più qualifica la cultura delle cure palliative è piuttosto la valorizzazione personale della fase finale della vita, la considerazione del morire come “atto umano”. Non un fatto puramente biologico 4.

L’elemento che più qualifica la cultura delle cure palliative è la valorizzazione personale della fase finale della vita, la considerazione del morire come “atto umano”. Non un fatto puramente biologico.

2. Una seconda sfida da affrontare è di natura epistemologica, si riferisce cioè all’identificazione di un modello di medicina in grado di giustificare, nella presa in carico di pazienti che per gravi insufficienze di organo si trovano nella fase finale della vita, la sistematica integrazione di interventi “curativi” e interventi “palliativi”. Anche in questo caso si fa presto a enunciarlo questo programma, più difficile pensarlo. F. Illhardt ha proposto un’interessante distinzione per rispondere alle sfide che le “cure a lungo termin”, con cui le cure per pazienti con gravi insufficienze d’organo presentano una stretta analogia, rivolgono alla medicina nella sua globalità. Per farvi fronte adeguatamente, la medicina, dice F. Illhardt, deve essere capace di passare da una “Medicina della distanza scientifica” a una “Medicina del coinvolgimento relazional”. Traduco così in italiano i termini usati da F. Illhardt: rispettivamente “stranger medicin” e “closeness medicin” 5.

Nelle cure a lungo termine, la medicina deve essere capace di passare da una “Medicina della distanza scientifica” a una “Medicina del coinvolgimento relazional”.

La Medicina della distanza scientifica è motivata dalla volontà di sapere; è rivolta alla “soluzione del caso”; si pone di fronte al paziente come lo scienziato si pone di fronte all’oggetto del suo studio; è essenzialmente orientata all’organo malato da riparare. La Medicina del coinvolgimento relazionale, invece, accosta il paziente vedendo la persona dietro lo schermo e le menomazioni provocate dalla malattia; cerca di capire ciò che vive il paziente, la sua insicurezza, la sua paura, le sue preoccupazioni, imparando a riconoscere i segni della sofferenza: quella espressa e quella inespressa. Inoltre: la Medicina del coinvolgimento relazionale riconosce i problemi umani connessi con l’esperienza della malattia, a volte più importanti della malattia stessa. Aiuta il paziente a maturare un atteggiamento “attivo” nei confronti della malattia, contribuendo al superamento di risposte “reattiv” improduttive, come risentimento e aggressività, diffidenza. La medicina del coinvolgimento relazionale è una medicina infine che proprio per rispondere a questi obiettivi è aperta alla stretta collaborazione con le altre figure professionali, e prima ancora con la famiglia e le persone che alimentano la rete dei legami affettivi del paziente.

La sfida che solleva la medicina del coinvolgimento relazionale, come si può vedere, tocca direttamente il modo di intendere il rapporto medico-paziente. Per una medicina ispirata al paradigma dell’accompagnamento, si richiede un rapporto medico-paziente che sappia superare sia l’approccio “paternalistico”, sia quello “informativo”, verso un rapporto di tipo “interpretativo”, quello tipico del counselling dove il medico aiuta il paziente a interpretare ciò che egli stesso può non avere chiaro e cioè quello che la fedeltà ai suoi stessi valori esige in un contesto clinico problematico; e, soprattutto, verso un rapporto di tipo “deliberativo”, quello che si attiva quando medico e paziente si impegnano insieme a pianificare le cure sulla base di ragioni individuate insieme e insieme soppesate 6.

Qui la sfida: come si può dare concretezza a questo tipo di rapporto, quello più adeguato all’accompagnamento, se importanti ricerche in tema di “decisioni alla fine della vita”, (mi riferisco a quella coordinata da Van der Heide tra il 2001 e il 2002) 7 a conferma della discrepanza che si registra in Italia a differenza che in altri paesi europei tra l’ampliamento delle decisioni mediche e la limitazione del coinvolgimento decisionale degli altri soggetti coinvolti, ci dicono che più del 50% delle scelte di fine vita non è stata discussa né con il paziente (se competent), né con i familiari e neanche con altri operatori sanitari, infermieri in particolare?

In Italia più del 50% delle scelte di fine vita non è stata discussa né con il paziente, né con i familiari e neanche con altri operatori sanitari.

3. Un’ulteriore sfida da affrontare è di natura etico-normativa. La sfida, peraltro, dove più si intersecano motivi di ordine bioetico e motivi di ordine biogiuridico. Nell’attuale tendenza epidemiologica sempre più marcata dall’incidenza di malattie croniche e degenerative e con gli attuali trattamenti medici che permettono di rallentarne il processo, si vengono sempre più a produrre situazioni di indebolimento della coscienza fino alla totale perdita della capacità decisionale. Quello che spesso capita in queste situazioni è la tendenza a fare tutto quello che si può tecnicamente fare, perché si pensa che da un punto di vista medico legale a fare non si sbaglia mai e che da un punto di vista affettivo non aver tralasciato proprio nulla di quello che tecnicamente si poteva fare sia il modo migliore per placare possibili sensi di colpa. La sfida sollevata da questa tendenza è quella di impegnarsi a giustificare in termini sempre più convincenti l’etica dell’accompagnamento. È la via migliore sia per contrastare l’uso scorretto che spesso si fa del ricorso alle ragioni medico-legali, sia per rassicurare la coscienza morale delle persone coinvolte.

Due gli aspetti su cui insistere per rispondere a questa sfida di natura etico-normativa 8.

Il primo si riferisce all’impegno a fare chiarezza all’interno di un’area semanticamente inquinata, qual è, almeno all’interno di molta parte del dibattito italiano, l’apparato concettuale impiegato nel dibattito sulle questioni etiche di fine vita. Il secondo si riferisce all’impegno a tener conto delle perplessità e delle obiezioni che riguardo al paradigma dell’accompagnamento ricorrono sia all’interno del mondo sanitario che del più ampio contesto culturale.

Per quanto riguarda l’impegno a fare chiarezza, rimane sempre di fondamentale importanza, di fronte alla facilità e all’approssimazione con cui specialmente all’interno della comunicazione di massa si ricorre al termine eutanasia, chiarire che cosa è eutanasia e che cosa non è eutanasia. Stando al significato che nella cultura occidentale contemporanea il termine eutanasia ha acquisito, sono due le pratiche che devono considerarsi in senso stretto eutanasiche: l’eutanasia volontaria attiva e l’assistenza al suicidio. Con la prima si intende l’atto con il quale un medico, su esplicita richiesta del paziente, interviene direttamente attraverso la somministrazione di farmaci letali per procurarne la morte. Con la seconda si intende l’atto con il quale un medico, su esplicita richiesta del paziente, interviene per somministrare un farmaco che, autonomamente assunto dal paziente, ne provoca la morte. Delimitando l’eutanasia propriamente detta all’“eutanasia volontaria attiva” e all’“assistenza intenzionale al suicidio”, risultano scorporate dall’area dell’eutanasia altre pratiche che, a certe condizioni, per lo meno, non devono essere affatto considerate eutanasiche. Non è eutanasia la terapia antalgica, compresa la sedazione palliativa, che in fase terminale, a certe condizioni, può portare ad abbreviare la vita del paziente. Non è eutanasia l’astensione o l’interruzione di un trattamento (anche) di sostegno vitale su un paziente non in grado di decidere, qualora si diano buone ragioni per pensare che i costi umani che per questo paziente il trattamento comporta siano di gran lunga superiori ai benefici che garantisce. Non è eutanasia il rifiuto da parte di un paziente in grado di decidere di trattamenti ritenuti da lui sproporzionati, attualmente o sulla base di una valida direttiva anticipata.

La differenza tra uccidere e lasciar morire è di particolare importanza per chi è direttamente coinvolto nell’assistenza di pazienti con gravi insufficienze di organo end stage.

Per quanto riguarda l’impegno a rinforzare il paradigma etico dell’accompagnamento, alcune tesi che lo caratterizzano andrebbero giustificate in termini più convincenti: (a) la tesi della differenza tra “uccider” e “lasciar morir”, tra interventi medici che interrompono la vita del paziente e interventi che interrompono un trattamento ritenuto sproporzionato; (b) la tesi dell’identità da un punto di vista etico tra astenersi da un trattamento e interromperlo nel caso in cui si verifichino le condizioni che, se date al momento dell’attivazione, ne avrebbero giustificato l’astensione; (c) la tesi della considerazione dell’alimentazione e della idratazione artificiali come trattamenti medici da sottoporre come ogni trattamento medico alla valutazione del rapporto costi-benefici; (d) la tesi della considerazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento come strumento per aiutare, nelle situazioni di indebolimento della coscienza cui va incontro l’evoluzione di molte malattie cronico-degenerative, a realizzare il compimento che una persona ha pensato per la sua vita; (e) la tesi, infine, della considerazione dei fattori soggettivi come determinanti per valutare la proporzionalità di un trattamento.

Riprendo due di queste tesi, la prima e l’ultima: rispettivamente quella relativa alla differenza tra uccidere e lasciar morire e quella relativa alla considerazione dei fattori soggettivi della proporzionalità.

Penso che evidenziare la differenza tra uccidere e lasciar morire sia di particolare importanza per chi è direttamente coinvolto nell’assistenza di pazienti con gravi insufficienze di organo end stage. Tra uccidere e lasciar morire dal punto di vista consequenzialistico non c’è, naturalmente, nessuna differenza. Astenendosi o sospendendo un trattamento medico, si pone fine alla vita umana in maniera che, in linea di principio, non è diversa dal porre fine alla vita attivamente. Certo lasciare che il paziente muoia, quando, pur disponibile, un trattamento benefico non viene somministrato perché intenzionalmente si vuole che il paziente muoia, questo è un reale atto eutanasico. In questo caso non c’è differenza tra uccidere e lasciar morire. Ma è così in tutti i casi? Non sembra proprio.

Affermare che tra uccidere e lasciar morire non ci sia mai differenza è logicamente fallace e insieme controproducente praticamente, dal momento che rischia di condurre alla “ipertrofia della responsabilità del medico”.

E perciò, affermare che tra uccidere e lasciar morire non ci sia mai differenza è logicamente fallace e insieme controproducente praticamente, dal momento che rischia di condurre alla “ipertrofia della responsabilità del medico” (H. Ten Have). Se si interrompe un trattamento di sostegno vitale, perché a un certo punto si prende atto che i costi che questo trattamento comporta sono sproporzionati, non è il medico a provocarne la morte. Rendere il medico responsabile dell’intero processo, e cioè della sospensione del trattamento e insieme della morte del paziente, vuol dire non riconoscere che la medicina ha dei limiti, contribuendo in questo modo a rinforzare quell’interventismo medico che crea le condizioni che poi portano a richiedere l’eutanasia.

Altrettanto e più importante ancora è insistere sulla considerazione decisiva dei fattori “soggettivi” nella determinazione della proporzionalità delle cure. Contro questa tesi si invoca in molti casi il principio dell’indisponibilità della vita. Trattamenti di sostegno vitale, siano essi trattamenti avanzati come la respirazione assistita o trattamenti di base come la nutrizione artificiale non possono entrare nell’area del consenso informato, né attualmente espresso, né espresso in precedenza attraverso dichiarazioni anticipate di trattamento. La vita, si sostiene, non è solo inviolabile, ma è anche indivisibile nel suo valore e soprattutto indisponibile al soggetto stesso. Indisponibile in quanto bene fondamentale.

Bisogna riconoscere che ci sono valide ragioni per difendere questa posizione. Valide ragioni per sostenerne la plausibilità anche all’interno di un contesto pluralistico come il nostro. E tuttavia si deve riconoscere anche che, se la vita è un bene fondamentale, non è però un assoluto morale. È quanto afferma la tradizione che forse ha più a cuore la vita come bene fondamentale: la tradizione cattolica, con la dottrina della distinzione tra mezzi ordinari-straordinari, riformulata successivamente in quella della distinzione tra mezzi proporzionati-sproporzionati. Notoriamente alla base di questa dottrina c’è la convinzione che se non è mai lecito interrompere direttamente la vita di un essere umano, se stesso o un altro, non sempre e non ad ogni costo si è obbligati moralmente a fare tutto ciò che contribuisce a conservarla.

Il dovere di preservare la vita non obbliga, generalmente, che all’impiego dei mezzi ordinari, ossia di quei mezzi che non impongono un onere straordinario per se stessi e per gli altri (Pio XII, 1959).

Per questa tradizione è sì obbligatorio utilizzare tutti i mezzi disponibili per preservare la vita, propria o altrui, ma l’obbligatorietà di tali mezzi dipende dal fatto che si tratti di mezzi ordinari e non di mezzi straordinari, di mezzi proporzionati non sproporzionati. “Il dovere di preservare la vita non obbliga, generalmente, che all’impiego dei mezzi ordinari, ossia di quei mezzi che non impongono un onere straordinario per se stessi e per gli altri. Un obbligo più severo sarebbe troppo pesante per la maggior parte degli uomini e renderebbe troppo difficile il raggiungimento di beni superiori più importanti”. A esprimersi in questi termini è Pio XII nel discorso agli anestesisti del 1959, un luogo classico dell’etica medica che ha trovato accoglienza anche al di fuori del mondo cattolico e che mi sembra possa ampiamente giustificare la considerazione decisiva dei fattori soggettivi nella determinazione della proporzionalità delle cure.

Ricordarsi di questi orientamenti può essere di grande utilità per il nostro contesto culturale nella misura in cui una loro attenta considerazione porta a smentire la tendenza con cui in questo nostro contesto si pretende in molti casi di giustificare forme di evidente accanimento terapeutico in nome dell’idea che il prolungamento della vita richieda che si faccia tutto quello che tecnicamente si può fare, costi quel che costi.

Da quanto detto, si può vedere come la prospettiva che ha guidato l’analisi di questo importante documento non consista tanto nel mettere in questione la proposta condivisa dalle Società scientifiche coinvolte, quanto piuttosto nel precisare i presupposti di ordine sia culturale che etico che possano rinforzarne la consistenza teorica.

Riferimenti bibliografici

  1. Royal College of General Practitioners. The National GSF Centre’s guidance for clinicians to support earlier recognition of patients nearing the end of life. 2011. Publisher Full Text
  2. Publisher Full Text
  3. Viafora C. L’accompagnamento di persone con SLA. La questione etica delle DAT. Bioetica. 2013; 4:571-85.
  4. Viafora C. Silenzi e parole negli ultimi giorni di vita. FrancoAngeli: Milano; 2003.
  5. Illhardt F, Eckardt H. Ethical issues in the treatment of chronic and degenerative diseases: the tension between “caring” and “curing” approach. Manoscritto dell’intervento al Convegno Internazionale sulla Bioetica Clinica, organizzato presso la Fondazione Lanza di Padova, nel corso del. 1999.
  6. Emanuel E, Emanuel L. Four Models of the Physician-Patient Relationship. JAMA. 1992; 267:2221-6.
  7. Van der Heide A, Deliens L, Faisst K. End-of-life decision-making in six European countries: Descriptive Study. Lancet. 2003; 362:345-50.
  8. Viafora C. A lezione di Bioetica. Temi e strumenti. FrancoAngeli: Milano; 2012.

Affiliazioni

Corrado Viafora

Cattedra di Bioetica, Università di Padova

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2014

Come citare

Viafora, C. (2014). Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o cure palliative?. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 29(4), 221-225. https://doi.org/10.36166/2531-4920-2014-29-51
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