Medical Humanities e Pneumologia
Pubblicato: 2023-11-29

Attila, la sua storia e la sua morte da un punto di vista medico

Medico Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio, Specialista in Chemioterapia, Storico e Filosofo della Medicina

Abstract

La vicenda biografica di Attila (395-453 d.C.) assume spesso elementi di natura leggendaria oppure immaginaria. Dietro il personaggio di questo condottiero e conquistatore emerge invece una storia complessa, costruita secondo le coordinate di una sapiente strategia politica, oltre che militare. Le circostanze della sua morte rappresentano inoltre un motivo di un’analisi medica intorno alle cause che la determinarono e che riserverà al lettore alcune sorprese.

Articolo

Gli anni dell’infanzia e della giovinezza di Attila sono avvolti nel mistero, come la stessa etimologia del suo nome. Il futuro re degli Unni dovrebbe essere nato in un posto imprecisato, tra il Mar Nero e il Mar Caspio, in un anno intorno al 390 oppure al 395. La maggior parte degli storici propende per queste date 1,2.

Del padre di Attila conosciamo solo il nome, quello di Mundzuch e della madre nemmeno questo. Anche sul nome del conquistatore i pareri sono discordi e un’ipotesi accreditata farebbe derivare il nome Attila da un termine in uso presso i Gepidi o Goti del Nord, che suonerebbe in lingua gotica come Atta, il quale in lingua germanica significherebbe Padre.

L’ipotesi è plausibile e starebbe a dimostrare un atteggiamento di rispetto e di timore che i Goti provarono sempre verso gli Unni, di cui avevano sperimentato tante volte l’abilità guerriera, una qualità che i Germani ammiravano incondizionatamente. La capacità bellica degli Unni era accompagnata dalla totale mancanza di ogni regola di moderazione e di pietà verso i nemici. Gli Unni non erano soliti fare prigionieri, a meno che non fosse possibile utilizzarli per ottenere un riscatto. Molti uomini di chiesa, durante l’invasione delle Gallie dell’anno 451, provarono ad ammansirli con la lettura dei libri sacri, facendosi loro incontro davanti alle ricche città che gli invasori si apprestavano a saccheggiare portando i crocefissi e i paramenti sacri, ma si ritrovarono decapitati oppure vennero, nel migliore dei casi, soltanto calpestati dagli zoccoli dei cavalli 2,3.

Bisogna sottolineare come gli Unni fossero un popolo etnicamente composito, un insieme di guerrieri turcomanni indoeuropei, uniti a molti cavalieri di provenienza mongolica. Erano inoltre presenti gli Alani delle pianure del fiume Volga e del Settentrione del Mar Caspio e numerosi appartenenti alla componente germanica, come i popoli sottomessi dei Gepidi e degli Ostrogoti. Forse ciò che unificava questi predatori, che facevano della caccia e della guerra le uniche due attività degne di essere praticate, era l’utilizzo dell’arco corto mongolico che maneggiavano stando a cavallo e con grande abilità. Per questo motivo e per la maggiore portata che avevano le frecce scagliate con l’arco mongolico, un esercito nemico poteva trovarsi decimato ancora prima di essere arrivato a utilizzare le spade e le lance in un combattimento ravvicinato. Inoltre gli Unni erano pagani e questo fatto spinse il clero delle ex province romane, ormai occupate da Visigoti, Burgundi e Franchi, a preferire di sostenere comunque i Barbari che li avevano occupati, perché costoro, Ariani o Cattolici che fossero, erano pur sempre dei cristiani. Le popolazioni germaniche erano state infatti quasi tutte convertite al Cristianesimo Ariano dal vescovo Wulfila nel IV secolo, una figura importante di intellettuale e religioso che aveva inventato l’alfabeto gotico e tradotto la Bibbia e le Scritture in lingua gotica. Gli Ariani credevano che la figura di Gesù Cristo e lo Spirito Santo fossero da collocarsi in una posizione inferiore a quella di Dio Padre e questa eresia era stata condannata una prima volta dai Cattolici nel Concilio di Nicea dell’anno 325 4.

I Romani avevano trovato vantaggioso, negli anni tra la fine del IV secolo e i primi decenni del V, arruolare delle schiere numerose di mercenari unni, i quali se ben pagati in oro facevano il lavoro sporco che le armate imperiali non erano più in grado di effettuare. Quando un’etnia barbarica diventava troppo invadente ed espansiva, ci pensava una spedizione punitiva di una banda di Unni, comandati accortamente da un generale romano, a sterminare senza pietà chi aveva provato a rendersi troppo indipendente da Roma. Il generale romano Ezio e il suo luogotenente Litorio furono particolarmente abili nel gestire queste forze mercenarie di insopprimibile ferocia. Litorio oltretutto era pagano come i suoi Unni e fu ucciso davanti alle mura di Tolosa dai Visigoti ariani nell’anno 439, mentre era sul punto di sterminare l’intera popolazione cristiana di quella città. La popolazione latina di Tolosa e il clero della stessa preferirono schierarsi con i Visigoti ariani, ma cristiani, piuttosto che arrendersi agli Unni pagani comandati da alcuni Romani, pagani anch’essi. Stando vicini per tanti anni ai Romani e obbedendo agli ordini dei loro migliori ufficiali, gli Unni impararono progressivamente la strategia dei Latini e per questo motivo divennero dei nemici ancora più temibili di ogni altro e per nulla sprovveduti 5.

Oscuro è il periodo che il giovane Attila trascorse a Ravenna come ostaggio alla corte dell’Impero Romano d’Occidente. Avrebbe dovuto avere circa quindici anni quando fu consegnato ai Romani come ostaggio e garanzia di un trattato di pace dal re degli Unni Rugila, suo zio. Il principe unno apprese il latino e sapeva leggere e scrivere, perché una formazione culturale latina degli ostaggi faceva parte della strategia romana volta ad ammansire possibili e futuri nemici. Attila aveva un fratello di nome Bleda, con cui, secondo il costume degli Unni, avrebbe dovuto condividere il potere. In effetti, alla morte del re Rugila, ucciso da un fulmine nel 434 e forse anche dalle preghiere della moglie dell’imperatore Teodosio II che lo detestava, la devota Elia Eudocia, la cosa si verificò, ma in seguito e nell’anno 445, con una modalità che non è mai stata del tutto chiarita, Attila si sbarazzò del fratello Bleda. Costui, da quel poco che ne sappiamo, non era attratto dalla guerra e dalla conquista, ma dalle orge e dai bagordi, il che per un monarca unno non costituiva affatto un sistema sicuro per sopravvivere.

Gli Unni praticavano una religione animistica ed erano caratterizzati da una superstizione che non li abbandonava mai e li portava a scorgere dei segnali divini in ogni manifestazione naturale, come il fulmine che uccise il re Rugila. In questo senso andrebbe interpretata la leggenda del ritrovamento della così detta Spada di Marte che Attila portava in battaglia e che conferì al re degli Unni una legittimità divina che oltrepassava la modesta conformazione fisica del sovrano. Una delle poche fonti che abbiamo a disposizione su questo periodo storico è quella fornita da Jordanes, uno storico vissuto circa un secolo dopo Attila, che raccontò nei particolari l’episodio del ritrovamento della spada divina, oltre a darci una descrizione attendibile di come fosse fisicamente Attila, probabilmente utilizzando un racconto derivato da quanto aveva osservato in precedenza, come testimone oculare, l’ambasciatore romano Prisco di Panion che Jordanes citò nel suo libro sulla Storia dei Goti:

182. Si racconta che l’esercito di Attila fosse composto da cinquecentomila uomini. Quell’uomo era venuto al mondo per portare devastazione tra i diversi popoli ed era il terrore delle terre che attraversava, arrecando la rovina al mondo intero a causa della fama di crudeltà che lo accompagnava. Attila era superbo nel modo di incedere e ruotava gli occhi da ogni parte in modo che anche dall’atteggiamento del suo corpo fosse manifesta la potestà che esercitava senza risparmio. Attila amava la guerra, ma sapeva controllare con astuzia la propria innata ferocia. Era assai avveduto nelle decisioni da prendere, si lasciava influenzare dalle suppliche ed era benevolo verso coloro cui aveva accordato la sua regale protezione. Il sovrano degli Unni era di bassa statura, aveva il torace ampio con una testa molto grande, gli occhi piccoli e la barba rada. I capelli erano di colore grigio, il naso camuso e la carnagione olivastra. Tutte queste caratteristiche erano proprie della sua gente.

Jordanes, Storia dei Goti, XXXV, 182 (mod.) 6

Prisco di Panion (410-472 circa) è considerato l’autore di riferimento per le vicende che riguardano gli Unni. Prisco era nato a Panion, una località sul Mar di Marmara e deve essere stato di famiglia agiata, perché ricevette un’accurata educazione letteraria. Nella sua opera storica appare infatti come uno scrittore elegante ed equilibrato che sembrava rifarsi ai modelli classici di Erodoto e di Tacito, lontano dalla produzione di una narrazione frammentata e ad effetto utilizzata da molti storiografi a lui contemporanei. Conosciamo un’opera storica di Prisco, composta di otto volumi, di cui ci sono giunti solo dei frammenti, i quali furono raccolti in forma antologica nel X secolo dall’imperatore e filologo bizantino Costantino VII Porfirogenito (905-959). Questo sovrano e intellettuale diede al lavoro di Prisco il titolo alquanto immaginifico di Storia di Bisanzio e ne descrisse la vicenda come un esempio della modalità di condurre una missione diplomatica. L’importanza storica di Prisco di Panion è legata al suo incarico come assistente e segretario del comes (conte) Massimino, un funzionario imperiale di alto livello che condusse un’importante ambasceria presso il quartier generale del re Attila in un anno che dovrebbe essere stato il 449, anche se sulla data precisa dell’ambasciata romana non vi è un accordo univoco da un punto di vista cronologico 3, 7.

Prisco era un osservatore attento e imparziale che ci ha fornito una descrizione precisa del modo di vivere e della struttura sociale degli Unni. Quest’ultima appariva come una costruzione bene articolata, la quale risultava molto più complessa e meno selvaggia di quanto era stato raccontato qualche decennio prima dallo storico Ammiano Marcellino nelle sue Res Gestae. Il campo in cui risiedeva il re unno era enorme ed era difeso da una palizzata lignea che conteneva innumerevoli capanne di feltro, le costruzioni tipiche delle popolazioni nomadiche dell’Asia centrale. Il Palazzo di Attila era differente rispetto al contesto abitativo più modesto che lo circondava ed era costruito in un legno lucido e pregiato, con delle tavole ben connesse tra di loro e in base a una certa sapienza architettonica. Nelle vicinanze del Palazzo, il capo unno Onegesio, il braccio destro di Attila, si era fatto costruire dei bagni in pietra alla maniera dei Romani, i quali bagni erano stati dotati di acqua corrente, un segno che anche gli Unni iniziavano ad apprezzare le comodità del vivere in modo stanziale. Onegesio aveva nominato come curatore dei locali per le sue abluzioni lo stesso architetto latino che li aveva edificati, questo perché gli Unni ritenevano degno di stima e di onore soltanto un guerriero e pertanto un architetto romano rimaneva comunque uno schiavo e una persona da adibire senza problemi alla funzione di bagnino. Sulla effettiva identità di questo potente dignitario unno esistono molti dubbi, dal momento che il termine lessicale di Onegesio potrebbe riferirsi a quello della carica di primo consigliere del re unno e non alla figura di una singola e specifica persona. Lo storico di origine barbarica Jordanes appare credibile anche nella sua descrizione del Palazzo reale:

179. Si potevano scorgere delle sale spaziose adibite a ospitare dei banchetti, i quali potevano rivestire i caratteri di un fasto esagerato ed ambienti cui si accedeva attraverso dei portici di elegante fattura. Lo spazio della corte più interna era circondato da una palizzata imponente che pareva essere stata innalzata per sottolineare l’ampiezza del cortile reale. Questa era la residenza del re Attila, il signore di tutti i Barbari e questo era il luogo che egli preferiva a tutte le città che aveva conquistato e depredato.

Jordanes, Storia dei Goti, XXXIV, 179 (mod.) 6

L’impero edificato da Attila andava dalla catena dei Monti Urali fino all’antico Limes, il confine romano sul Reno e sul Danubio, ma se qualche regione o provincia, oltre i confini raggiunti dall’autocrate unno, fosse stata ricompresa nelle mire del conquistatore, questa sarebbe presto caduta in possesso degli Unni a un semplice cenno di comando del re. L’ambasceria romana di Massimino fu invitata a partecipare a un banchetto alla presenza di Attila, una cerimonia conviviale che fu convocata per l’Ora nona, come ci riferisce Prisco, il che equivaleva all’incirca alle tre del pomeriggio. La sala che ospitò la delegazione dell’Impero romano d’Oriente era spaziosa e con i tavoli dei convitati disposti lungo le pareti. Attila sedeva in una posizione centrale alla sala, mentre i dignitari più importanti, vale a dire i re dei popoli più strettamente alleati degli Unni, come i Gepidi e gli Ostrogoti, stavano seduti alla destra del sovrano. Prisco e il suo capo Massimino vennero invece relegati a sinistra e in fondo alla grande sala, quasi a testimoniare che per il nuovo padrone del mondo, Attila l’Unno, non vi era alcuna necessità di blandire gli inviati dell’imperatore di Bisanzio. Anche se ogni anno i Romani di Costantinopoli e il loro sovrano Teodosio II (408-450) versavano un tributo in oro agli Unni pari a centinaia di libbre per non essere invasi oppure aggrediti, non erano tuttavia ritenuti degni di stima e di attenzione oltre lo stretto necessario. L’utilizzo sapiente dei posti assegnati nei banchetti era un accorgimento di tipo politico e celebrativo e faceva parte di un’accorta tradizione diplomatica che era stata elaborata come uno strumento di politica e di governo dai diversi popoli del Mondo Antico, una regola che anche gli Unni sembravano avere recepito. Nel X secolo un vescovo di Cremona di nome Liutprando, divenuto l’ambasciatore a Bisanzio dell’Imperatore germanico Ottone I di Sassonia, si lamenterà di essere stato fatto accomodare nella sala dei banchetti della reggia di Costantinopoli a una distanza ben superiore dal trono a quella dei dignitari Bulgari, prossimi invece al seggio imperiale. Tuttavia il collerico vescovo cremonese, dalla origine longobarda che ne aveva segnato il carattere, ignorava come l’etichetta di una corte bizantina fosse regolata da un antico cerimoniale che il basileus Niceforo II Focas (963-969), il quale lo aveva ospitato in modo tanto ostile, aveva osservato con precisione. Lo stesso predecessore di Niceforo II, Costantino VII Porfirogenito (906-959), si era infatti preso la briga di scrivere un intero trattato, dal titolo significativo di De cerimoniis, in cui veniva regolamentata ogni tipo di azione e di manifestazione della vita di corte a Bisanzio, compresa la disposizione dei tavoli per i banchetti ufficiali e il posto da assegnare a ogni invitato. Prisco di Panion descrive bene la sala dei banchetti alla corte di Attila e lo svolgersi dell’evento conviviale cui aveva partecipato, un’occasione di incontro che presentava una raffinata simbologia di esercizio del potere. Si trattava di notizie di prima mano, rese da un testimone oculare e che rendevano gli Unni qualcosa di diverso dal quel popolo di guerrieri sanguinari che molti autori ci hanno invece tramandato:

Gli scanni stavano allineati alle pareti lunghe del salone. Al centro e seduto su di un divano, si era accomodato il re Attila. Dietro al suo seggio, solo pochi gradini portavano a un diverso giaciglio approntato con alcune lenzuola e coperte di vario colore, simile questo ai letti nuziali che presso i Greci e i Romani vengono allestiti per festeggiare i novelli sposi. […] I seggi collocati alla destra di Attila erano considerati dei posti di riguardo, quelli alla sinistra del re erano invece riservati a ospiti di rango inferiore. In questa fila di sinistra sedemmo noi romani, accanto al capo scita Berig, che era comunque più vicino di noi al trono di Attila. A destra del re era stato collocato il trono di Onegesio, il più autorevole dei consiglieri del sovrano. […] Quando tutti ebbero preso posto, un coppiere porse ad Attila un boccale colmo di vino ed egli lo prese e brindò alla salute di chi gli era accanto. Questi allora si alzò in piedi per contraccambiare, perché chi viene in tal modo fatto oggetto di onore non può tornare a sedersi se prima non abbia assaporato il vino che gli era stato offerto e abbia vuotata e riconsegnata la coppa al coppiere.

Quando il re degli Unni si fu di nuovo seduto, anche gli altri commensali poterono contraccambiare il brindisi del re e alzarono le loro coppe, augurando buona salute al loro Signore e Padrone, bevendo il vino fino in fondo in segno di dovuto rispetto. […] Attila si mostrava molto parco nel mangiare e si accontentava di cibi semplici. Rispetto alle tavole degli ospiti, riccamente imbandite con vasellame d’oro e argento, Attila si serviva invece di una modesta coppa di legno. La veste del re era semplice ed era stata lavata con cura. Nemmeno la spada che il sovrano portava al suo fianco, come pure i lacci dei sandali che teneva avvolti intorno alle gambe alla maniera degli Sciti e neppure i finimenti del cavallo reale, erano stati abbelliti con dell’oro e delle pietre preziose, oppure con un altro materiale di qualità raffinata.

Bornmann F., Prisci Panitae Fragmenta, Le Monnier, Firenze 1979. (mod.) 7

Il vino scorreva a fiumi in questi banchetti e non era naturalmente prodotto dagli Unni oppure dai loro alleati. Con i tributi in oro che venivano regolarmente versati ad Attila figuravano grandi quantità di vino, che era consumato diffusamente nei banchetti e nelle feste con cui terminavano le scorrerie degli Unni. Il vino era inoltre offerto ritualmente ai capi dei cavalieri delle steppe quando questi si recavano in visita in qualche villaggio. Un capo lo beveva stando sulla sella del suo cavallo, perché non era onorevole scendere da una cavalcatura per ricevere una bevanda. Dalla descrizione del banchetto fatta da Prisco di Panion si può comprendere come Attila non fosse affatto il selvaggio assetato di sangue descritto da molta storiografia a lui contemporanea e da quella che sarebbe stata scritta in seguito. Era invece, a suo modo, uno statista conforme ai tempi in cui viveva, magari crudele e spietato, ma capace di tenere insieme dei popoli diversi per lingua, religione, cultura e usanze, di cui era in grado di apprezzare le diversità e le qualità, oltre a servirsene. Alcuni capi delle popolazioni sconfitte e poi sottomesse agli Unni, come il re Ardarico dei Gepidi, nutrivano dei sentimenti di gratitudine e di assoluta fedeltà nei confronti del loro conquistatore, tanto da rivestire dei ruoli e dei compiti di grande importanza tattica e strategica in guerra e in pace. Attila era dunque un sovrano in grado di suscitare atteggiamenti di devozione e di fiducia nei suoi collaboratori in un periodo di guerre e di stragi interminabili come il V secolo e dovrebbe essere considerato, se non un filantropo, almeno un saggio governante e non peggiore di altri a lui contemporanei. Paragoniamolo ad esempio ai due imperatori romani con cui doveva confrontarsi. A Occidente regnava il giovane Valentiniano III, un ragazzo di circa vent’anni succube della madre Galla Placidia e del grande generale Ezio, che lo facevano apparire come poco più di un portavoce di decisioni prese altrove. Anche a Oriente le cose non erano diverse e nemmeno migliori. L’imperatore di Costantinopoli, Teodosio II, era una figura scialba e priva di carattere, un fantasma decisionale sottomesso alle valutazioni della moglie Eudossia e della sorella Pulcheria, due donne animate da una fede religiosa saldissima e da un’altrettanta incontentabile sete di potere, capaci di ignorare i richiami degli affetti e le necessità della cristiana pietà 8,9.

Durante la visita di Prisco di Panion alla corte di Attila avremmo potuto incontrare delle figure di rilievo che ricopriranno un ruolo importante nei decenni seguenti. Potremmo iniziare da un ricco notabile romano, forse un dignitario di origine germanica di nome Flavio Tatulo. Questi era presente nel Ring dell’Unno insieme al figlio Oreste, un militare di carriera, inviati entrambi dalla corte di Ravenna. Il generale Oreste sarà il padre dell’ultimo imperatore d’Occidente, il giovanissimo Romolo Augustolo, deposto da un principe del popolo degli Sciri, un capo mercenario di nome Odoacre, nel settembre dell’anno 476. Anche il padre di Odoacre era presente nell’accampamento di Attila e negli stessi giorni di Prisco e di Tatulo. Si trattava del principe sciro Edeco o Edicone, uno dei generali più valorosi di Attila e un uomo di sua assoluta fiducia. Questa serie di circostanze, conferirono all’ambasceria del comes Massimino e del suo segretario Prisco di Panion la caratteristica di una straordinaria finestra documentale sulla vita degli Unni e del loro re. L’originalità della figura di Attila risiedeva nella sua capacità di non essere interessato al potere per il solo potere e neppure alle ricchezze in quanto tali, ma di avere invece una visione politica di aggregazione e di governo di genti diverse, sulle cui forze intendeva costruire un nuovo e potente impero, alternativo a quello di Roma, capace di unificare i Germani, i Turcomanni, i Nomadi delle steppe euroasiatiche e un domani l’intero mondo sotto la propria guida 3,10.

Per raggiungere questo obiettivo Attila non si era fermato davanti a nulla, facendo sopprimere anche il fratello Bleda e perseguendo una visione di comando e di ordine terreno che non ammetteva, come in tutti gli autocrati di ogni tempo e luogo, di sottostare a ostacoli, oppure a remore morali. Lo snodo cruciale della vicenda biografica di Attila si verificò nell’autunno del 450. Il re dei Vandali africani, il pirata Genserico, un uomo astuto e spregiudicato, descritto da Jordanes (XXXIII, 168) come di mediocre statura e claudicante per una caduta da cavallo, inviò alla corte degli Unni molti e ricchi doni e la proposta di muovere guerra ai secolari nemici dei Vandali, i Visigoti del Regno rivale di Tolosa. Genserico aveva sfregiato la figlia del re visigoto Teoderido, la promessa sposa del principe vandalo Unerico, suo figlio, rimandandola al padre con quello sfregio, insieme alla rottura di ogni tipo di alleanza tra i due popoli germanici che si combattevano da sempre. L’astuzia di Genserico era celebre e attraverso quei doni il re dei Vandali intendeva deviare le enormi armate degli Unni e dei loro alleati verso Occidente, impegnando l’Impero Romano di Ravenna e i Visigoti della Gallia in una lotta mortale da combattere contro Attila per sopravvivere. La suggestione messa in opera da Genserico trovò una facile accoglienza nel sentimento di onnipotenza che ormai era padrone dei pensieri Attila. Il re unno aveva inoltre ricevuto una celebre missiva, accompagnata da un anello e da una proposta di matrimonio, da parte della principessa Grata Onoria, la sorella dell’imperatore Valentiniano III. Onoria era stata infatti privata del suo amante segreto e promessa in sposa a un anziano senatore, una violenza che non aveva fatto piacere a questa donna, impulsiva, sanguinaria e vendicativa come lo erano stati i suoi antenati, i grandi imperatori Valentiniano I e Teodosio I. Attila chiese a Ravenna, come dote delle sue nozze con l’incauta principessa imperiale, la metà dell’Impero d’Occidente, ben sapendo che si trattava di una richiesta che mai avrebbe potuto essere soddisfatta. Si formò in questo modo un’alleanza naturale tra l’Impero Romano d’Occidente e il suo abile stratega, il patrizio e magister militum (generale in capo) Flavio Ezio e il Regno Visigoto di Tolosa. Ma lo schieramento delle forze in campo andò oltre questa pure importante alleanza, creando un’enorme coalizione di popoli che l’intero Occidente schierò contro Attila, in quella che fu probabilmente una delle battaglie più importanti di tutta la storia umana 8,9.

Sul luogo della grande battaglia non è stato mai raggiunto un accordo univoco. Viene ritenuta essere stata combattuta nei pressi di Châlons-en-Champagne e chiunque abbia visitato quei luoghi si sarà reso conto di come le ampie e ondulate pianure della Champagne si prestino perfettamente allo schieramento di grandi eserciti. La data della battaglia è anch’essa incerta. Per alcuni storici si tratterebbe dell’inizio dell’estate dell’anno 451 e per altri di una data più prossima alla fine della stagione calda. In ogni caso, quello che risultò essere significativo fu lo scontro epocale tra i Popoli dell’Occidente e l’Orda di Attila. Il re degli Unni aveva varcato la frontiera romana nella primavera del 451 e prima di iniziare la marcia lungo il corso del Danubio aveva inviato un esercito di Unni contro l’Impero Romano d’Oriente, compiendo una manovra diversiva per tenere occupato il nuovo imperatore Marciano (450-457), un generale deciso e per nulla rassegnato al ruolo di semplice pagatore di tributi ad Attila. Infatti l’esercito orientale sconfisse facilmente il secondo esercito di Attila nell’autunno del 451 3,10.

Nel frattempo, il grosso della grande schiera degli Unni si era mossa verso Occidente, tracciando nel suo percorso attraverso le campagne della Gallia una lunga scia di sangue e di distruzioni. Con Attila si schierarono i Gepidi del re Ardarico, il più fedele dei suoi alleati, seguiti dagli Ostrogoti del re Valamiro, che andavano a combattere contro il popolo fratello dei Visigoti. Seguivano gli Sciri di Edeco, il popolo dei Rugi, degli Eruli, i Quadi e i Turingi. L’esercito dell’Occidente era formato invece dalle truppe romane che Ezio aveva raccolto in ogni angolo dell’Impero, dai Visigoti di Tolosa del re Teodorido, dai Franchi, ancora pagani e da quello che restava del popolo dei Burgundi, i quali erano già stati pesantemente ridotti di numero dagli assalti precedenti di Attila e che odiavano il conquistatore unno. Lo storico Jordanes aggiunse a questi gruppi principali alcune etnie galliche e germaniche ribelli, che avevano un tempo prestato servizio nelle fila dell’esercito romano e che avevano scelto di tornare tra i ranghi dei latini in vista dello scontro epocale che si andava preparando 3,11.

La schiera dei Gepidi si divise dal grosso dell’esercito unno ed entrò in Gallia passando dalla regione di Basilea, nell’odierna Svizzera. Attila invece, con il grosso della sua armata, passò il confine romano più a Settentrione e si trovò davanti la città di Treviri, che era stata una capitale imperiale ai tempi di Costantino I (306-337) e che fu saccheggiata senza limiti. Dopo Treviri le nuove vittime di Attila furono le cittadine di Tongeren e di Metz, che furono letteralmente rase al suolo. Molti degli abitanti furono uccisi per il solo sfoggio di un’inutile crudeltà, con i bambini che vennero appesi ai rami degli alberi e ogni immaginabile e altra forma di scempio e di violenza. Queste azioni di crudeltà efferata sui civili potrebbero essere state causate dagli alleati germanici oppure turcomanni degli Unni, i quali sarebbero giunti sul luogo dei saccheggi quando ormai le veloci schiere dei cavalieri di Attila si erano allontanate verso Occidente. La città seguente, destinata a essere saccheggiata, fu Reims, il cui vescovo Nicasio si recò incontro agli Unni vestito dai suoi migliori e più ricchi paramenti e con le sacre scritture tra le mani. La testa di Nicasio rotolò per terra dopo un rapido lampeggiare della spada di un soldato unno e la marcia dell’orda di Attila proseguì verso Parigi. Questa città che venne risparmiata grazie al fatto di essere stata costruita per lo più in mezzo alla Senna e sull’Île de la Cité, un fatto che la rendeva difficilmente espugnabile da un’armata di cavalieri 3.

Il vero obiettivo strategico di Attila era però la città di Aurelianum (Orléans), che era sotto il controllo di un distaccamento di soldati Alani al comando del principe Sangibano. Costui aveva ricevuto il potere sulla città direttamente dal re dei Visigoti di Tolosa, Teodorido, ma pareva avesse già raggiunto un accordo segreto con gli invasori per aprire le porte della città che gli era stata affidata. La reazione disperata dei cittadini di Orléans, che iniziarono a difendersi a oltranza, costrinse gli Alani a reagire all’invasione unna. La resistenza di Aurelianum durò un tempo sufficiente a permettere alla coalizione romano-visigota di comparire improvvisamente e in modo minaccioso in vista della città assediata. Attila decise allora di ripiegare verso Oriente con l’intento di trovare un luogo idoneo dove schierare con efficacia le sue truppe. Superstizioso, come tutti gli Unni, Attila chiese ai suoi indovini di predire l’esito dello scontro che si apprestava a ingaggiare in quella che avrebbe dovuto essere una battaglia decisiva. Questi gli annunciarono un confronto difficile con i nemici della coalizione avversaria, perché si sarebbe trattato di una lotta mortale, forse dall’esito infausto, ma provvista di una sicura consolazione legata alla caduta sul campo di battaglia di un capo importante dell’esercito nemico 3,4.

Attila non era comunque un uomo che potesse temere cosa o persona. Decise pertanto di dare battaglia e lo fece in quell’angolo della regione della Champagne che gli parve particolarmente propizio, in un luogo caratterizzato da un’ampia pianura ondulata in cui lo sguardo poteva spingersi lontano e rivelare le intenzioni del nemico. Gli era stato riferito di una regione particolarmente propizia per combattere, caratterizzata da ampie pianure in cui la moltitudine del suo esercito avrebbe potuto trovare un naturale e vantaggioso esito al suo dispiegamento e, alle spalle di questo pianoro, un sito idoneo alla collocazione delle salmerie e dei carriaggi, appesantiti dal bottino razziato durante l’attraversamento delle Gallie e dagli esseri umani presi come schiavi. Si trattava di un antico recinto celtico, circondato da un fossato oggi poco riconoscibile che Attila si premunì comunque di rendere più sicuro attraverso la costruzione di una palizzata lignea, una tecnica che era ben conosciuta dagli Unni. Questo sito oggi è collocato nel piccolo agglomerato rurale francese chiamato La Cheppe, in cui è delimitato da confortevoli tavoli da picnic, collocati sui bordi del terrapieno fatto erigere da Attila. Con le loro prede belliche al sicuro, gli Unni si disposero alla battaglia, mentre di fronte a essi Ezio e i suoi alleati barbarici fecero lo stesso. La località dello scontro, chiamato dei Campi Catalaunici, sorgeva lungo una strada romana a circa cinquanta chilometri a Sud-Est di Reims e presentava a Settentrione un’altura poco pronunciata da cui era possibile dominare la pianura per un largo tratto. Era un rilevo modesto, il quale oggi è sede di un campo di addestramento militare dell’esercito francese e chiuso al pubblico. Jordanes d’altronde descrisse con una certa precisione il sito:

Come abbiamo riferito, i due eserciti si fronteggiarono ai Campi Catalaunici. Quel luogo era come sovrastato da una modesta collina e i comandanti dei due eserciti desideravano entrambi impossessarsi della cima di quell’altura per essere favoriti dalla posizione favorevole che essa offriva. Gli Unni e i loro alleati occuparono pertanto il lato destro del rilievo, mentre i Romani e i Visigoti fecero altrettanto con il sinistro. Sotto a quell’altura si diede pertanto inizio ai combattimenti e le due grandi armate si scontrarono.

Jordanes, Storia dei Goti, XXXVIII, 197 (mod.) 6

Lo scontro ebbe inizio all’ora nona, le tre del pomeriggio e si protrasse fino all’arrivo della notte. La scelta dell’orario è indicativa, perché Attila doveva temere la forza del nemico che aveva di fronte e il combattere di pomeriggio, se le cose si fossero messe male, gli avrebbe permesso di sospendere le ostilità con il buio. Lo scontro fu molto cruento. Il re dei Visigoti Teodorido e il patrizio Ezio avevano saggiamente ordinato al principe degli Alani Sangibano, che aveva difeso in modo incerto Orléans, di tenere il centro dello schieramento, in modo da evitare improvvise defezioni e tradimenti. Visigoti e Ostrogoti si scontrarono in una lotta fratricida e la lealtà a coloro cui avevano giurato fedeltà fu per quei guerrieri un vincolo superiore a ogni altro impedimento. Gli Ostrogoti erano sotto il comando di tre capi, il re Valamiro e i suoi fratelli Teodimiro e Vidimiro, appartenenti tutti alla più nobile e antica casata dei Goti, quella degli Amali, una stirpe che Jordanes definì come capace di renderli più nobili dello stesso signore che stavano servendo, vale dire di Attila. La pressione dei Visigoti fu inarrestabile e i guerrieri del Regno di Tolosa spinsero indietro gli avversari fino all’episodio oscuro della morte del re Teodorido, forse caduto da cavallo nella confusione della mischia, oppure ucciso da una lancia scagliatagli contro dal nobile Andagis, un guerriero ostrogoto appartenente anche lui alla casata reale degli Amali 3.

Il fatto che Andagis divenisse in seguito uno dei membri della famiglia del capo alano Candac, il signore presso il quale il padre dello storico Jordanes aveva rivestito la funzione di notarius, potrebbe farci propendere per una captatio benevolentiae nei confronti di chi lo storico dei Goti aveva servito nei suoi anni giovanili, nella medesima funzione esercitata dal padre. In ogni caso, la spinta della cavalleria dei Visigoti provocò uno sfaldamento nelle fila dell’esercito di Attila, che decise di ritirarsi all’interno della cerchia difensiva di La Cheppe. Il principe Torismundo, il figlio maggiore del defunto re dei Visigoti, scoprì il cadavere del padre e si ripropose di attaccare per vendetta il campo fortificato di Attila con la luce del nuovo giorno. Sappiamo come il re degli Unni fosse rimasto scosso dall’andamento dello scontro e come avesse addirittura ordinato di approntare per lui una pira funebre nel centro dell’accampamento fortificato, il quale aveva un perimetro di circa due chilometri ed era pertanto in grado di accogliere un esercito di migliaia di uomini. Seguendo la tradizione del suo popolo, Attila aveva l’intenzione di suicidarsi e di essere posto sulla pira funebre per evitare di cadere vivo nelle mani dei suoi nemici. Uno dei capi avversari era infatti morto, ma non si era trattato del romano Ezio, che Attila temeva particolarmente, ma del re dei Visigoti Teodorido, quindi la profezia degli indovini unni aveva trovato riscontro. Il principe Torismundo fu eletto re dai suoi guerrieri sul campo di battaglia e chiese al generale Ezio, di cui riconosceva la saggezza e l’autorità, come avrebbe dovuto comportarsi:

Conclusi i riti funebri del re Teodorico, il figlio Torismundo, affranto dal dolore di essere divenuto orfano, ma animato dal coraggio che lo distingueva, decise di vendicare la morte del re suo padre contro gli Unni e gli altri sopravvissuti. Si consultò allora con il patrizio Ezio, il più anziano e saggio dei comandanti, per comprendere come avrebbe dovuto comportarsi. Ezio però, temendo che l’Impero Romano, una volta sconfitti definitivamente gli Unni, potesse cadere vittima della forza dei Goti, cercò di persuaderlo a tornare nel proprio regno e riprendersi con sicurezza il potere che il padre gli aveva trasmesso come primogenito, impedendo così ai suoi fratelli di usurpare il trono di Tolosa. […]

Torismundo accolse il consiglio di Ezio senza accorgersi dell’ambiguità e dell’astuzia che lo aveva generato, ma apprezzando soltanto il tornaconto personale che il seguirlo avrebbe generato. Pertanto, accantonando l’occasione di distruggere la potenza degli Unni una volta per tutte, Torismundo se ne tornò alla volta di Tolosa. Si comportò come è frequente che accada nella natura umana, la quale, accogliendo dei semplici sospetti, perde spesso le grandi occasioni di agire con una proficua determinazione.

Jordanes, Storia dei Goti, XLI, 215-217 (mod.) 6

Partito Torismundo, il generale Ezio permise ad Attila di allontanarsi dai Campi Catalaunici indisturbato, lasciando comunque nelle mani dei Romani buona parte del frutto delle razzie compiute nelle Gallie. I caduti del grande scontro furono molte migliaia e la stima più probabile li fa ascendere a circa sessantamila individui. Le leggende che ne nacquero parlarono per anni di battaglie notturne tra i fantasmi dei caduti di entrambe le schiere nelle brughiere circostanti. Nei dintorni del così detto Campo di Attila erano poi sorti numerosi tumuli funerari, oggi vicini a delle graziose casette nella fiorente campagna francese del Grande Est. Gli scavi archeologici hanno portato al ritrovamento di monete e di altre tracce del passaggio delle due armate, mentre i reperti ossei sono stati meno evidenti. Era come se la Champagne, secondo l’affermazione famosa di Victor Hugo, avesse effettivamente dévora les Huns.

L’intervallo di pace che il re degli Unni concesse all’Impero Romano fu comunque breve. Nell’estate del 452 una nuova orda unna era ai confini dell’Impero. Questa volta la vittima designata fu la città di Aquileia, una delle più ricche e prospere città romane, fondata come colonia da destinare ai veterani e che era stata popolata fin da II secolo a.C. dai legionari che avevano terminato il servizio militare attivo. Situata alla fine della lunga Via dell’Ambra, che arrivava in città dalle rive del lontano Mar Baltico, Aquileia aveva la fama di una città prospera e imprendibile, tanto che era uscita vincitrice anche da un assedio condotto dall’imperatore Massimino il Trace nel 238, un militare usurpatore che non riuscendo a espugnarla era stato poi ucciso dai suoi commilitoni sotto le mura della città. Quelle stesse mura che avevano resistito a tanti assalti non riuscirono a fermare Attila 3,12.

Esiste una leggenda, riportata sia da Jordanes (XLII, 220, 221) che da Procopio di Cesarea (III, 4), che narra di Attila, il quale, osservando quelle mura imprendibili, si accorse di una famiglia di cicogne che stava abbandonando in tutta fretta una delle torri di guardia. Poco dopo infatti quel tratto di mura franò e gli Unni poterono entrare nella città di Aquileia e devastarla senza limiti, fino a spargere del sale sulle sue rovine in segno di spregio. Si trattò probabilmente di una scossa di terremoto a far crollare le mura nel tratto fatale, un fenomeno d’altronde frequente in quella regione e che provocò il cedimento in una zona già compromessa dagli assalti precedenti e dalle lesioni causate dalle macchine d’assedio che gli Unni avevano fatto costruire ai prigionieri romani in loro potere. Dopo il saccheggio di Aquileia, che nell’immaginario collettivo segnò un punto di non ritorno nella rappresentazione della figura di Attila come quella del Flagellum Dei, la Penisola Italiana si aprì indifesa davanti alle armate del conquistatore 6,13.

Sul resto della campagna italiana di Attila le fonti storiche sono modeste e incerte. È abbastanza sicuro che sia la citta di Mediolanum (Milano) che quella di Ticinum (Pavia) subirono un saccheggio degli Unni, senza andare però incontro alle distruzioni di Aquileia. Anche il tragitto dell’orda degli Unni diviene alquanto incerto, stante che l’incontro con il papa Leone I Magno (440-461) avvenne sul fiume Mincio e nei pressi di Mantova, quindi a una certa distanza da Milano e da Pavia. Jordanes indicò espressamente, a riguardo del fiume Mincio, la località chiamata Ager Ambulejus, che corrisponderebbe a una zona vicino l’odierno abitato di Governolo (Jordanes, XLII, 223):

“Agro Venetum Ambulejo, ubi Mincìus amnis commeantium frequentatione transitur” [“Presso la pianura veneta di Ambulejo, nel luogo in cui il fiume Mincio viene attraversato con frequenza dai viandanti”].

Anche in Paolo Diacono nella sua Historia Romana, (XIV, 11-13), descrisse l’episodio, definendo con una certa precisione geografica il luogo dell’incontro tra Leone I e Attila:

“Eo loco, Mincìus fluvius in Padum influit” [“In quel luogo in cui il fiume Mincio si getta nel fiume Po”].

Bisogna aggiungere che il testo di Paolo Diacono fu scritto circa duecento anni dopo quello di Jordanes, anche se entrambe le versioni non appaiono troppo lontane tra loro nel descrivere il fatto. Allo stesso modo le rappresenta-zioni pittoriche sono concordanti, a partire da quella celebre dipinta da Raffaello nelle Stanze Vaticane (1514), che fornisce a papa Leone I le sembianze del suo contemporaneo e protettore Leone X dei Medici. Attila, in questo caso, appare atterrito dalla comparsa miracolosa dei Santi Pietro e Paolo armati di spade celesti, mentre nella illustrazione pittorica manieristica seguente di Francesco Borgani, dipinta nel 1614, Attila presenta delle fattezze di tipo quasi asiatico, oppure mongolico, comunque dei tratti somatici orientali e si mostra più dialogante nei suoi rapporti con il Papa. Erano presenti dei fattori oggettivi che consigliarono al re degli Unni di ritornare nei suoi possedimenti nella grande pianura presso il fiume Tibisco. Papa Leone I non era solo nella sua ambasceria. Era accompagnato da alcuni funzionari imperiali che offrirono ad Attila un cospicuo compenso in oro e in più la stagione stava andando incontro all’autunno e sarebbe stato necessario trovare un luogo sicuro in cui fare svernare il grande esercito unno e conservare il ricco bottino ottenuto dai saccheggi di Aquileia, Milano e Pavia. Recentemente si è ipotizzato come un fattore che consigliò ad Attila di ritirarsi la presenza di una recrudescenza della Malaria nell’Italia Centrale e nella Pianura Padana che avrebbe allarmato Attila e i suoi generali 14.

Gli Unni conoscevano la fine che aveva fatto il re dei Visigoti Alarico dopo il sacco di Roma dell’agosto del 410. Forse anche il re dei Visigoti era stato ucciso dalla malaria in età relativamente giovanile. In ogni caso gli Unni e Attila in particolare erano molto superstiziosi e magari qualche indovino avrà predetto al re di non sfidare la sorte. Il risultato finale fu l’abbandono della campagna d’Italia e il ritorno in Pannonia, l’odierna Ungheria, delle truppe unne, già logorate dalla malaria contratta facendo pascolare i cavalli nei campi della Pianura Padana, ma cariche di un’abbondante preda bellica. Ad Attila rimanevano solo pochi mesi di vita, ma si apprestava a una nuova guerra contro l’imperatore d’Oriente Marciano che avrebbe dovuto iniziare in primavera. Il capo unno non riusciva a stare inattivo e l’istinto di rapina e di potere lo pervadeva, come tutti i grandi autocrati della storia 12.

Prima della guerra contro Marciano, Attila decise comunque di gratificarsi contraendo un nuovo matrimonio. Gli Unni praticavano infatti una solida poligamia per reagire attraverso l’elevata natalità alla frequenza della mortalità infantile. La prescelta fu una principessa giovane e bella di etnia germanica, dal nome di Hildico, un appellativo che venne poi trasformato in quello di Crimilde, come appare nella Saga o Canzone dei Nibelunghi. Si potrebbe ipotizzare che Hildico fosse in realtà una fanciulla ostrogota, secondo quanto riferito nella saga germanica che narra come fosse la sorella di tre re, i quali potrebbero essere stati i sovrani ostrogoti vassalli di Attila di nome Valamiro, Teodimiro e Vidimiro. Dopo la lunga festa di nozze, Attila si ritirò nelle sue stanze con la nuova moglie, ma il re non si dedicò alle attività erotiche. Era sonnolento e ottenebrato dalle libagioni. Si addormentò ed ebbe un’emorragia interna che lo portò alla morte per soffocamento 3.

Queste sono le due versioni storiche della morte di Attila che possediamo:

Attila aveva preso in moglie una ragazza molto bella di nome Hildico [Crimilde] e lo aveva fatto dopo altre mogli, come è costume della sua Gente. Preso da un’eccessiva allegria durante il banchetto delle sue nozze e stordito dal sonno e dal vino, si distese nel letto nuziale sulla schiena. In questa posizione un’improvvisa emorragia, che normalmente sarebbe uscita dal naso, venne ostacolata nel suo naturale decorso e gli si riversò in gola. Così facendo [il sangue] l’uccise. In tal modo l’ubriachezza pose un termine disonorevole a un re sempre vittorioso in guerra.

Prisco di Panion, Frammento 23 (mod.) 7)

Come racconta lo storico Prisco, nel momento della sua morte, Attila, nonostante avesse già un numero considerevole di mogli, un’usanza tipica del suo popolo, era in procinto di sposarne un’altra di nome Hildico, dotata di una particolare bellezza. Durante la festa nuziale si abbandonò a un’allegria eccessiva e forse appesantito dal vino che aveva bevuto e dalla sonnolenza che ne era derivata, si sdraiò a terra supino. Iniziò subito dopo a perdere sangue dalle narici, cosa che gli capitava frequentemente. Tuttavia questa volta il sangue ebbe impedito il suo naturale deflusso dalle consuete vie di uscita e refluì verso la gola soffocandolo fino alla morte. Pertanto, a questo sovrano, sempre vittorioso in guerra, l’ebrezza riservò una morte disonorevole. Al calare della notte seguente, al termine del giorno successivo alle nozze, i servi di Attila iniziarono a sospettare che qualcosa di terribile fosse accaduto e forzarono le grandi porte del suo alloggio privato. All’interno di quelle stanze trovarono Attila ormai morto e senza alcuna ferita sul corpo a causa di una cospicua emorragia e, vicino a lui, la giovane sposa che piangeva con il viso triste sotto il velo nuziale.

Jordanes, Storia dei Goti, XLIX, 254 (mod.) 6

Da un punto di vista medico, l’ipotesi che mi pare più probabile potrebbe essere quella di un’emorragia da varici esofagee in un soggetto affetto da una cirrosi alcolica. Già lo storico Prisco di Panion raccontava come il re unno esagerasse sempre nelle libagioni. Quindi uno stato di iperammoniemia in un uomo con un fegato cirrotico, il colorito cutaneo giallastro da iperbilirubinemia e le varici esofagee da ipertensione portale, spiegano bene l’emorragia mortale e il successivo soffocamento. Di sicuro Hildico non poteva aspirare in nessun modo le secrezioni del marito e l’emorragia era stata comunque troppo imponente e inarrestabile. Attila morì in pochi minuti, come avviene in molti i cirrotici da etilismo allo stadio terminale cui si rompono le varici dell’esofago. Era il marzo dell’anno 453 e il re degli Unni doveva avere all’incirca cinquantacinque anni. Ancora dal racconto di Prisco di Panion e degli storici che lo hanno preso come riferimento, apprendiamo come alla scoperta del cadavere del re nessun oltraggio o violenza venne esercitato sulla giovane sposa, che sedeva incolpevole e in lacrime vicino al corpo senza vita di Attila 3,7.

La salma venne rivestita con gli abiti migliori ed esposta alla vista del suo popolo al centro del campo, collocata sotto una tenda di seta cui erano stati rialzati gli angoli perché il re fosse ben visibile dai suoi guerrieri, che sfilarono intorno al corpo di Attila. Molti degli uomini iniziarono a compiere delle spettacolari evoluzioni a cavallo nei pressi del sovrano defunto, mostrando tutta la loro destrezza nel cavalcare e seguendo un antico rituale barbarico che veniva praticato anche dalle popolazioni germaniche (Jordanes, XLIX, 256). Venne poi intonato un canto funebre che Prisco e Jordanes ci hanno riportato nella sua intierezza e che testimonia ancora una volta come lo stereotipo degli Unni come selvaggi disumani debba essere rivisto. Il testo ci è pervenuto in latino, nella traduzione dalla lingua greca utilizzata da Prisco per le sue Storie e compiuta dallo stesso Jordanes, il quale aveva potuto consultare gli otto libri del lavoro di Prisco nella loro integrità:

Praecipuus Hunnorum rex Attila

Patre genitus Mundzuco

Fortissimarum gentium dominum,

qui inaudita ante se potentia solus

Scythica et Germanica regna possedit,

Nec non utraque Romani orbis imperia

Captis civitatibus terruit et,

ne predae reliquia subderentur,

placatus precibus anuum vectigal accepit:

cumque haec omnia proventu felicitatis egerit,

non vulnere hostium, non fraude suorum,

sed gente incolume, inter gaudia laetus

sine sensu doloris occubuit.

Quis ergo exitum putet

Quem nullus aestimat vindicatum?

[Noi cantiamo per te], Attila, sommo re degli Unni,

figlio di tuo padre Mundzuch,

Signore dei più valorosi tra i Popoli,

Tu, che per primo, con forza mai eguagliata,

Hai regnato sugli Sciti, i Germani e perfino

su tutto il mondo una volta dominato dai Romani.

Hai atterrito le città da te conquistate

e altre di queste, per non essere ridotte

a delle semplici rovine,

furono risparmiate con il pagamento di ricchi tributi.

Tuttavia, dopo aver condotto a termine

queste grandi imprese,

sei morto senza dolore,

senza ricevere ferite dai tuoi nemici,

né inganni dai traditori,

ma hai lasciato questa vita

tra i piaceri e le gioie della tua Gente.

Come possiamo Noi, tuo Popolo,

chiamare questa fine una morte,

poiché nessuno potrà mai credere

di doverla vendicare?

Jordanes, Storia dei Goti, XLIX, 257

Ho cercato, nella traduzione di questo testo, di rendere comprensibile il dolore del popolo di Attila alla morte del suo re. Un popolo che doveva amarlo e rispettarlo, cosa che lo rende, se non un sovrano compassionevole, una modalità che visti i tempi non sarebbe stata possibile, un monarca umanamente non peggiore dei suoi contemporanei e degli stessi Romani, i quali ostentavano una civiltà non sempre accompagnata da un’eguale etica dei comportamenti e spesso segnata da un sentimento ingiustificato di superiorità. La notte del giorno seguente la sua morte Attila venne sepolto in gran segreto. Vennero preparate per lui tre bare. La prima d’oro, in cui fu adagiato il corpo, la seconda d’argento e la terza di ferro, a testimonianza della ricchezza e della forza militare che il padrone del Mondo aveva posseduto. Nella tomba di Attila vennero calati innumerevoli oggetti preziosi, le armi più eleganti strappate ai nemici, faretre tempestate di gemme e ornamenti di ogni sorta. Attila dovette essere sepolto con la sua celebre Spada di Marte, la quale lo aveva accompagnato in tante battaglie e che soltanto lui poteva impugnare.

Per conservare l’assoluta segretezza sul luogo del tumulo funerario di Attila, tutti gli uomini che avevano materialmente approntato la sepoltura del re furono uccisi e i fedelissimi di Attila, che eseguirono il massacro, seppero conservare il segreto sulla località in cui doveva riposare per sempre il loro re. Così Attila dorme ancora oggi nel cuore dell’immensa Pianura Pannonica, tenendo stretta tra le mani l’impugnatura della sua preziosa spada.

Dubito che sia stato sepolto sotto la corrente di un fiume oppure le acque di un lago, perché il tempo che intercorse tra la morte e la sepoltura fu soltanto di poche ore e in questo breve periodo non sarebbe stato agevole costruire e poi disfare degli sbarramenti per le acque. In ogni caso, non mi pare che il fatto sia così rilevante. Come il re visigoto Alarico, che fu sepolto in Calabria nel letto del fiume Busento, il grande conquistatore unno riposa anche lui nella memoria degli uomini e non soltanto tra le zolle della terra che lo ricopre. E questa è senza dubbio una sorte riservata a pochi.

Riferimenti bibliografici

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  6. Jordanes Storia dei Goti. Città nuova Editrice: Roma; 2016.
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  13. Procopio di Cesarea. Le Guerre. Res Gestae Edizioni: Milano; 2017.
  14. Winegard T., Zanzare Il più micidiale predatore della storia dell’umanità. Harper Collins Italia: Milano; 2021.

Affiliazioni

Federico E. Perozziello

Medico Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio, Specialista in Chemioterapia, Storico e Filosofo della Medicina

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2023

Come citare

Perozziello, F. E. (2023). Attila, la sua storia e la sua morte da un punto di vista medico. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 38(3), 187-197. https://doi.org/10.36166/2531-4920-716
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