Articolo di revisione
Pubblicato: 2014-10-15

Patogenesi della fibrosi polmonare idiopatica e prospettive terapeutiche

Centro di Riferimento Regionale Malattie Rare del Polmone, Università di Catania, Dipartimento di Biomedicina Clinica e Molecolare, Azienda Ospedaliero-Universitaria “Policlinico-Vittorio Emanuele”, Catania
Fibrosi polmonare idiopatica Infiammazione Fibrosi Cancro TGF-beta Fibroblasti

Abstract

La fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è una malattia fibrosante caratterizzata da un accumulo di miofibroblasti e di matrice extracellulare a livello alveolare con conseguente distorsione dell’architettura del parenchima polmonare. Sebbene la malattia sembri innescata da un danno cronico dell’epitelio e dalla successiva risposta fibro-proliferativa, rimane ancora fonte di dibattito il ruolo svolto dall’infiammazione. I risultati dello studio “PANTHER” hanno dimostrato indirettamente che l’infiammazione non è una caratteristica prevalente nell’IPF. Il trattamento con prednisone, azatioprina e NAC non solo non è utile, ma è accompagnato da una maggiore mortalità e tasso di ospedalizzazione rispetto ai soggetti di controllo. L’IPF sarebbe quindi il risultato del danno cronico dell’epitelio che causa l’attivazione dei fibroblasti, l’aumento dell’espressione di TGF-beta e quindi da un processo di riparazione anomalo responsabile del sovvertimento delle strutture alveolari. Queste osservazioni hanno portato allo sviluppo e all’approvazione clinica di un farmaco come il pirfenidone che agisce inibendo l’attivazione dei fibroblasti e l’espressione del TGF-beta. Recentemente sono state descritte numerose analogie patogenetiche tra IPF e cancro. Alterazioni genetiche e epigenetiche, ritardata apoptosi, riduzione delle comunicazioni intercellulari, e un’attivazione anomala delle vie di trasduzione intracellulari del segnale sono solo alcuni dei meccanismi patogenetici che accomunano il cancro e l’IPF. I recettori delle tirosin-chinasi sono mediatori chiave nell’attivazione di numerose vie di trasduzione coinvolte nei meccanismi di regolazione cellulare il cui cattivo funzionamento è stato messo in relazione con lo sviluppo e la progressione di molte forme di cancro. Recentemente, l’attività di questi recettori è stata messa in relazione con i meccanismi che regolano la fibrogenesi. Il profilo anti-fibrotico degli inibitori dei recettori tirosin-chinasici è stato valutato sui fibroblasti e su modelli animali di fibrosi polmonare. La contemporanea inibizione di PDGFR, VEGFR and FGFR ha attenuato la fibrosi suggerendo un nuovo approccio terapeutico per il trattamento dell’IPF. Sulla base di queste osservazioni i recettori delle tirosin-chinasi possono essere utilizzati come potenziali target terapeutici sia per il cancro che per l’IPF. La visione dell’IPF come una patologia simile al cancro può migliorare le conoscenze su questa patologia utilizzando il grande bagaglio di conoscenze che la biologia del cancro ha raggiunto. Il riconoscimento di vie patogenetiche comuni tra le due malattie può stimolare nuove sperimentazioni cliniche con farmaci o combinazioni di farmaci già usati in oncologia e può inoltre migliorare l’attenzione e la consapevolezza nei confronti di questa terribile malattia.

La fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è una patologia caratterizzata da un irreversibile e progressivo processo di fibrosi del tessuto polmonare che alterando gli scambi dei gas a livello alveolare porta rapidamente a una grave insufficienza respiratoria.

La fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è una patologia caratterizzata da un irreversibile e progressivo processo di fibrosi del tessuto polmonare che porta rapidamente a una grave insufficienza respiratoria.

È una patologia che colpisce prevalentemente il sesso maschile e sebbene possa interessare ogni fascia di età, il picco massimo d’incidenza è intorno ai 65 anni. L’IPF rappresenta circa il 23% di tutte le pneumopatie interstiziali diffuse e la sua prognosi rimane ancora drammaticamente severa con una sopravvivenza dal momento della diagnosi di circa 3 anni 1. La definizione esatta dell’incidenza e della prevalenza dell’IPF è resa difficile dalla relativa rarità di questa malattia e dall’oggettiva difficoltà nel porre con esattezza la diagnosi. Solo recentemente la definizione diagnostica di IPF è stata finalmente standardizzata attraverso l’introduzione di linee guida internazionali 2. I pochi studi epidemiologici esistenti, sono inoltre limitati a specifiche aree geografiche e talvolta hanno utilizzato criteri diagnostici non sempre verificabili e spesso differenti nelle varie indagini. Lo studio cui si fa maggiore riferimento è comunque quello di Raghu et al. pubblicato nel 2006 che mostra un’incidenza di 16,3 casi per 100.000 abitanti e una prevalenza di 42,7 pazienti con IPF sempre per 100.000 abitanti. Nella stessa analisi effettuata da Raghu, l’aggiunta di criteri diagnostici più restrittivi, faceva scendere questi valori a 6,8 e 14 rispettivamente per l’incidenza e la prevalenza. Estrapolando i dati sulla popolazione italiana è possibile stimare la presenza di 26.000 persone malate e circa 8.400 nuove diagnosi per anno che diventano rispettivamente 9.600 e 4.200 utilizzando criteri d’inclusione più stringenti 3. In un caso o nell’altro ci si rende conto che la dimensione del problema è tutt’altro che trascurabile e che ogni pneumologo dovrebbe fare il tentativo di aumentare la propria attenzione nei confronti di questa grave patologia, migliorando le proprie capacità clinico-diagnostiche. A differenza del passato esistono per l’IPF nuove prospettive terapeutiche che possono e devono essere offerte a tutti i pazienti a condizione che la diagnosi venga posta nei termini e nei tempi giusti. Le nuove prospettive terapeutiche che si aprono per questa patologia nascono dal grande fermento nello studio di nuovi farmaci per l’IPF che è frutto dello sviluppo che la ricerca ha avuto negli ultimi anni nello studiare e comprendere i complessi meccanismi patogenetici responsabili della malattia. Come in ogni patologia è lo studio di questi meccanismi che può fornire spunti e possibili aree d’intervento farmacologico. La fibrosi polmonare non sfugge certo a questa regola e da quando, anche per merito di un numero ristretto di studiosi che ha dedicato tempo e passione a questa patologia, le nostre conoscenze sulla patogenesi dell’IPF sono migliorate, anche il numero dei potenziali farmaci e delle sperimentazioni cliniche è cresciuto vertiginosamente. Questo articolo intende passare brevemente in rassegna le vecchie e le nuove conoscenze patogenetiche nel campo dell’IPF e di come queste abbiano influito nel diverso approccio terapeutico verso questa malattia nel corso degli ultimi anni.

Ipotesi patogenetiche e nuovi target terapeutici

L’ipotesi infiammatoria

Durante gli ultimi dieci anni le nostre conoscenze sulla patogenesi dell’IPF si sono arricchite di moltissimi nuovi elementi anche se la completa comprensione di questa malattia resta per molti aspetti ancora lontana. Nel corso degli anni sono state quindi formulate delle ipotesi patogenetiche fondate sulle conoscenze in quel momento disponibili e sulle quali si sono di volta in volta basati gli approcci terapeutici e farmacologici. Una delle ipotesi più accreditate e che più ha resistito nel tempo è indubbiamente l’ipotesi infiammatoria. Secondo questa ipotesi una noxa patogena di natura sconosciuta sarebbe in grado di attivare il sistema immunitario innescando quindi un processo infiammatorio che si manifesta dapprima con il reclutamento delle cellule infiammatorie e successivamente con un danno delle strutture alveolari. Tale danno è seguito da un processo riparativo che per motivi non del tutto chiari non si limita alla semplice riparazione, ma conduce verso la fibrosi del tessuto polmonare 4. Nei pazienti affetti da fibrosi polmonare l’infiammazione cronica è caratterizzata da uno squilibrio tra molecole con attività fibrosante e molecole dotate invece di attività anti-fibrotica. Le citochine e le proteine secrete dalle cellule epiteliali alterate e dai miofibroblasti formano un network che svolge un ruolo fondamentale nella patogenesi dell’IPF, fattori profibrotici come il TGF-beta e numerosi altri fattori di crescita sono implicati nelle migrazione e nella proliferazione dei fibroblasti e nell’accumulo di matrice extracellulare incluso collagene, fibronectina, fibre elastiche e proteoglicani 5, si assiste inoltre ad una riduzione della sintesi o comunque della capacità di rispondere all’azione di controllo di quei fattori come le prostaglandine E2 (PGE2) in grado di inibire la proliferazione e l’attivazione dei fibroblasti. Sulla base dell’ipotesi infiammatoria e dello squilibrio delle citochine l’approccio terapeutico per anni comunemente praticato nell’IPF si è largamente basato sul tentativo di controllare e spegnere l’infiammazione cronica e la risposta immunitaria che la generava. Tutto ciò attraverso l’utilizzazione di dosaggi generosi di corticosteroidi e immunosoppressori come l’azatioprina o la ciclofosfamide. A suffragare l’uso di questi farmaci alcuni studi che avevano mostrato un parziale effetto positivo dei corticosteroidi nell’IPF. Si trattava però di studi non controllati, dove la scarsa accuratezza diagnostica aveva probabilmente incluso altre interstiziopatie responsive al corticosteroide. Una metanalisi condotta da Richeldi et al. ha raggruppato tutti gli studi presenti in letteratura relativi all’uso di corticosteroidi nell’IPF. La metanalisi ha rilevato l’assenza di trial clinici placebo-controllo che provassero l’efficacia della terapia corticosteroidea nei pazienti con IPF, per cui è possibile concludere che al momento attuale non esistono evidenze a supporto di tale terapia per il trattamento di questa patologia 6. Gli stessi autori hanno sottoposto a metanalisi anche gli studi dove erano stati utilizzati immunosoppressori per il trattamento dell’IPF giungendo a conclusioni simili e cioè che anche per questi farmaci non vi è alcuna giustificazione al loro uso. Più recentemente lo studio PANTHER ha chiarito in modo probabilmente definitivo lo scarso ruolo della combinazione steroidi-immunosoppressori nell’IPF. Lo studio è stato condotto su 236 pazienti divisi in 3 gruppi: un gruppo è stato trattato con prednisone, azatioprina e N-acetil-cisteina (NAC), la cosiddetta “triplice” terapia, un altro gruppo riceveva il placebo e infine, il terzo gruppo soltanto la NAC. Abbastanza sorprendentemente lo studio è stato interrotto prima del previsto per i pazienti in trattamento con prednisone, azatioprina e NAC a causa di un aumento della mortalità, delle ospedalizzazioni e in generale degli eventi avversi 7. Lo studio è invece ancora in corso per quanto riguarda i pazienti in trattamento con la NAC. Lo studio della NAC nel trattamento dell’IPF trova un razionale nel fatto di essere un precursore del glutatione, il maggiore antiossidante presente nelle cellule. Nell’IPF è stato infatti dimostrato uno squilibrio tra ossidanti e antiossidanti a favore dei primi che accelererebbe il processo fibrotico. Da alcuni studi emerge che i livelli di glutatione intracellulare si riducono in seguito ad esposizione alla citochina pro-fibrotica TGF beta. Tale deficit di antiossidanti causa un aumento delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) che a loro volta sono responsabili dell’incremento della produzione di collagene che si ha in risposta al TGF-beta 8. La somministrazione di NAC per os attraverso la riduzione dello stress ossidativo è in grado di aumentare significativamente i livelli di glutatione presenti nel BAL dei pazienti con IPF 9. Sulla base di questi dati alcuni anni addietro è stato condotto lo studio IFIGENIA in cui il trattamento con NAC era stato in grado di rallentare il declino della FVC nel gruppo trattato 10. Lo studio PANTHER, su una casistica più ampia rispetto allo studio IFIGENIA, non ha però mostrato un reale vantaggio nell’uso della NAC nel trattamento dell’IPF 11. Lo studio PANTHER ha inoltre mostrato in modo chiaro e scientificamente corretto quello che la metanalisi di Richeldi, ma soprattutto molti clinici, avevano già evidenziato nella pratica medica quotidiana e cioè la scarsa efficacia se non addirittura l’inefficacia della terapia con steroidi e immunosoppressori nel trattamento dell’IPF. È bene sottolineare che l’infiammazione resta comunque alla base di altre interstiziopatie polmonari diverse dall’IPF nelle quali uno stimolo in certi casi conosciuto o comunque riconoscibile (polmonite da ipersensibilità) in altri indefinito (sarcoidosi, DIP) rappresenta il trigger scatenante per il reclutamento di cellule infiammatorie e per la successiva evoluzione verso la fibrosi polmonare. In queste patologie la biopsia polmonare, soprattutto se eseguita nelle fasi iniziali della malattia, mostra la presenza di un infiltrato infiammatorio e solo successivamente, a seconda dell’evoluzione della malattia, i segni della fibrosi. In questi casi la terapia con steroidi e immunosoppressori rimane una valida, se non unica, alternativa terapeutica.

L’ipotesi non-infiammatoria

L’esame istologico del tessuto polmonare di pazienti affetti da IPF non è invece caratterizzato da un vero e proprio infiltrato infiammatorio, sono infatti poche le classiche cellule infiammatorie presenti nel tessuto polmonare e si tratta per lo più di linfociti.

L’esame istologico del tessuto polmonare di pazienti affetti da IPF non è caratterizzato da un vero e proprio infiltrato infiammatorio.

Anche in virtù dello scarso successo della terapia antinfiammatoria nell’IPF il ruolo della flogosi in questa malattia è stato a lungo dibattuto fino a quando Selman nel 2001 formulò una nuova ipotesi definita fin dall’inizio “non-infiammatoria” secondo la quale l’IPF è il risultato di un’inappropriata funzione e attivazione delle cellule epiteliali alveolari e dei fibroblasti polmonari con aumento dell’espressione di TGF-beta.

Secondo una nuova ipotesi definita “non-infiammatoria” l’IPF è il risultato di un’inappropriata funzione e attivazione delle cellule epiteliali alveolari e dei fibroblasti polmonari con aumento dell’espressione di TGF-beta.

L’ipotesi di Selman è suffragata dalle numerose dimostrazioni che sia l’epitelio che i fibroblasti possono attivarsi a vicenda e sono cellule, che pur costituendo la struttura e l’impalcatura del parenchima polmonare, sono anche in grado di determinare il danno del tessuto polmonare producendo citochine con attività pro-fibrotica e sfuggendo di fatto ai meccanismi di controllo dell’apoptosi e della proliferazione al pari delle classiche cellule infiammatorie. Nel normale processo di riparazione tissutale i miofibroblasti dopo avere riparato il danno, vanno gradualmente in apoptosi dando il tempo all’epitelio di ricostituirsi. Nell’IPF si assiste invece ad un’alterazione dei meccanismi normalmente preposti alla riparazione del danno tessutale e soprattutto all’aumentata resistenza all’apoptosi dei miofibroblasti che porta al loro accumulo e alla conseguente produzione e deposizione di grandi quantità di matrice extracellulare e quindi alla fibrosi del tessuto polmonare. L’evento iniziale è rappresentato da uno stimolo cronico da parte di una noxa patogena che rimane ancora sconosciuta e che causa la perdita d’integrità dell’epitelio alveolare con una conseguente alterazione funzionale delle cellule epiteliali che tendono ad andare in apoptosi 12. L’apoptosi delle cellule epiteliali è accompagnata dal danno della membrana basale e dal rilascio di fattori di crescita e chemochine che a loro volta facilitano l’attivazione e il passaggio delle cellule mesenchimali attraverso la membrana basale alterata. Tutto ciò avviene nel contesto di un microambiente tissutale caratterizzato da un alterato equilibrio tra fattori fibrogenici e antifibrogenici, che è considerato uno dei fattori chiave nella patogenesi della fibrosi. L’apoptosi delle cellule epiteliali è indotta dal TGF-beta che è responsabile di altri importanti fenomeni che contribuiscono in modo sostanziale alla formazione della fibrosi, quali la transizione epitelio-mesenchimale, la sintesi del collagene, la proliferazione e la differenziazione dei fibroblasti in miofibroblasti, nonché lo sviluppo da parte di queste cellule di una particolare resistenza all’apoptosi 13. Il TGF-beta promuove infatti l’apoptosi delle cellule epiteliali alveolari mentre sui miofibroblasti esercita un effetto opposto, inducendo lo sviluppo di un fenotipo cellulare di miofibroblasto resistente alla morte programmata. Subito al di sotto delle aree di epitelio andate incontro ad apoptosi si formano quindi i cosiddetti foci fibroblastici che contengono cellule attivate che secernono attivamente collagene e altri componenti della matrice extracellulare. I foci fibroblastici, rappresentano la lesione elementare e paradigmatica dell’IPF e sono costituiti da cellule contrattili e secretorie, con caratteristiche a metà strada tra i fibroblasti e le cellule muscolari lisce, denominate miofibroblasti 14. I miofibroblasti derivano dalla trasformazione, indotta dal TGF-beta dei fibroblasti residenti a livello dell’interstizio polmonare e in parte anche dalla differenziazione delle cellule epiteliali alveolari (transizione epitelio-mesenchimale). Le cellule epiteliali assumono infatti, in modo graduale, le caratteristiche delle cellule mesenchimali, perdono la tipica polarità apico-basale, riducono l’espressione di molecole di adesione come la E-caderina e di markers tipici come la citocheratina, iniziando quindi ad esprimere molecole che sono invece caratteristiche delle cellule mesenchimali come la alfa-SMA, la vimentina e il collagene di tipo I 15 e soprattutto acquisiscono la capacità di migrare. È anche possibile che una parte dei miofibroblasti possa derivare dalla differenziazione terminale di cellule progenitrici circolanti nel sangue periferico di origine midollare denominate fibrociti. I fibrociti sono cellule circolanti che migrano verso i siti di lesione sotto il richiamo di specifiche chemochine rilasciate nella zona del danno 16 17. Sebbene si ritenga che il loro ruolo sia quello di contribuire alla riparazione e risoluzione del danno, il riscontro di un aumento dei fibrociti circolanti è stato posto in relazione alla malattia e indicato come possibile marcatore di progressione. Sulla base delle attuali evidenze sperimentali che derivano dallo studio della patogenesi non-infiammatoria dell’IPF numerose molecole capaci di rallentare la fibrosi in modelli sperimentali in vitro o in vivo sono state testate come potenziali farmaci. Tra queste, quella che ha suscitato maggiore interesse è senza dubbio il pirfenidone molecola dotata di effetti anti-fibrotici e anti-infiammatori.

Diversi studi hanno evidenziato la capacità del pirfenidone di inibire il TGF-beta. Anche in modelli animali il pirfenidone ha mostrato una buona efficacia di tipo anti-fibrotico.

Diversi studi hanno infatti evidenziato la capacità del farmaco di inibire il TGF-beta, ridurre la sintesi delle proteine della matrice extracellulare e di bloccare gli effetti proliferativi del PDGF sui fibroblasti isolati dai polmoni di pazienti con IPF 18 19. Anche in modelli animali il pirfenidone ha mostrato una buona efficacia di tipo anti-fibrotico. Sulla base di questi dati sono iniziate numerose sperimentazioni cliniche condotte dapprima in Giappone e successivamente in Europa e negli Stati Uniti. Tali studi hanno dimostrato, nei pazienti con IPF trattati con pirfenidone, l’efficacia del farmaco nel ridurre il declino dell’FVC e un allungamento del “progression-free survival” (PFS), nonché un miglioramento della sintomatologia dispnoica e tussigena 20. Sulla base di questi studi il farmaco è entrato in commercio in Giappone già da alcuni anni e in virtù dei risultati dei due studi “CAPACITY” il pirfenidone è stato approvato dalla European Medicine Agency (EMA) ed è oggi presente in Canada e nella gran parte dei paesi Europei, compresa l’Italia. Il pirfenidone è il primo farmaco in assoluto che viene autorizzato con un’indicazione specifica per l’IPF.

Recentemente lo studio ASCEND, condotto prevalentemente negli Stati Uniti ha confermato e ampliato i risultati positivi degli studi precedenti sul pirfenidone lasciando prevedere una prossima utilizzazione di questo farmaco anche sul mercato statunitense 21.

Fibrosi polmonare idiopatica e cancro

Nonostante ciò l’IPF rimane una patologia a prognosi infausta con una sopravvivenza a 5 anni inferiore a quella della maggior parte delle diverse forme di cancro. Recentemente sono emerse alcune evidenze che hanno avvicinato la patogenesi dell’IPF a quella del cancro.

Recentemente sono emerse alcune evidenze che hanno avvicinato la patogenesi dell’IPF a quella del cancro.

Alterazioni genetiche ed epigenetiche, modalità di proliferazione e di differenziazione delle cellule coinvolte sono molto simili nelle due malattie. Alterazioni di geni oncosoppressori come p53, K-ras e FHIT, coinvolti nei meccanismi di regolazione dell’apoptosi e della proliferazione cellulare, sono state da tempo identificate nel cancro e più di recente anche nell’IPF 22. Nel cancro sono state anche descritte delle modifiche post-traslazionali nel DNA, che attraverso l’acetilazione o la metilazione delle regioni promoter, modificano l’attività dei geni. Un esempio è il silenziamento del gene Thy-1 determinato dalla metilazione della regione promoter del gene, che si associa al comportamento particolarmente aggressivo di molti tumori. L’ipermetilazione del gene Thy-1 23, si associa infatti all’assunzione da parte dei miofibroblasti di un fenotipo caratterizzato da un notevole stato di attivazione funzionale che si esprime con un aumento della capacità da parte di queste cellule di invadere i tessuti circostanti. È interessante notare come anche nel tessuto polmonare dei pazienti con IPF vi sia una ridotta espressione della proteina Thy-1, e che la maggior parte dei miofibroblasti presenti nei foci fibroblastici sono Thy-1 negativi permettendo di ipotizzare che il silenziamento di questo gene, così come nel cancro, sia legato alla trasformazione dei fibroblasti in miofibroblasti 24 e alla loro attivazione funzionale. La proliferazione cellulare incontrollata è un’altra caratteristica peculiare di quanto avviene nel cancro, dove è stata ampiamente descritta da parte delle cellule tumorali la pressoché completa perdita dei normali meccanismi che controllano la proliferazione cellulare. Queste cellule divengono autosufficienti per quanto riguarda la produzione dei fattori di crescita e insensibili ai segnali d’inibizione, con alterazione dei meccanismi preposti alla comunicazione intercellulare e conseguente evasione dall’apoptosi. Così come le cellule tumorali, i miofibroblasti nell’IPF producono numerose citochine, come il TGF-beta, che con un meccanismo autocrino stimolano ulteriormente gli stessi miofibroblasti. Queste cellule divengono inoltre insensibili ai segnali inibitori avendo una ridotta capacità di sintetizzare e di rispondere all’azione di molecole dotate di attività anti-fibrotica quali le PGE2 25. I miofibroblasti, così come le cellule tumorali si trovano in un ambiente ricco di fattori di crescita che stimola cronicamente la loro proliferazione e/o attivazione funzionale. Tra questi fattori il PDGF, il VEGF e l’FGFR sono tra le molecole maggiormente coinvolte nell’attivazione funzionale di diversi stipiti cellulari e sono numerose le evidenze sperimentali che mostrano un chiaro coinvolgimento di queste molecole nella carcinogenesi. Più recentemente, PDGF, VEGF e FGFR sono diventati oggetto di studio anche nell’IPF come possibili nuovi target terapeutici. È stato infatti dimostrato che i recettori di questi fattori di crescita sono delle tirosin-chinasi che attivano delle vie di trasduzione del segnale che sono coinvolte nella fibrosi polmonare. Da questa osservazione, l’idea che l’inibizione di questi recettori possa rallentare la progressione della malattia.

Sono nate nuove sperimentazioni cliniche tese a valutare il ruolo di alcuni inibitori delle tirosin-chinasi, già utilizzati nella terapia del cancro.

Recentemente sono quindi nate delle nuove sperimentazioni cliniche tese a valutare il ruolo di alcuni inibitori delle tirosin-chinasi, già utilizzati nella terapia del cancro, che hanno come target finale l’attività di fattori di crescita quali PDGF, VEGF e FGFR. Prendendo quindi spunto dalle numerose analogie patogenetiche tra IPF e cancro, è stato condotto uno studio sperimentale randomizzato, in doppio cieco, placebo-controllo che ha testato l’efficacia del Nintedanib su un gruppo di pazienti con IPF. Il Nintedanib è un farmaco già utilizzato nel trattamento di alcune forme di cancro che esercita la sua azione con una tripla inibizione delle tirosin-chinasi e che ha come molecole bersaglio tre importanti fattori di crescita, PDGF, VEGF, FGFR, coinvolti nella patogenesi sia del cancro che dell’IPF 26. Lo studio di fase II ha ovviamente valutato nei pazienti con IPF i dati relativi alla sicurezza e tollerabilità del farmaco, ma ha anche mostrato un interessante trend di riduzione del declino della funzione polmonare, un miglioramento della qualità di vita e un minor numero di riacutizzazioni nei pazienti trattati rispetto al gruppo placebo 27. I dati ottenuti da questo studio, senza dubbio incoraggianti, hanno trovato conferma negli studi di fase III INPULSIS 1 e 2 che hanno mostrato in modo univoco un effetto significativo sulla riduzione del declino funzionale nei pazienti trattati con il Nintedanib, aprendo così la strada a un possibile secondo farmaco per il trattamento dell’IPF 28. Un’altra via patogenetica in comune tra IPF e cancro è rappresentata dall’attivazione di PI3K/AKT, importante via di trasduzione del segnale che media rilevanti funzioni come la proliferazione e la sopravvivenza cellulare. Questa via è particolarmente attivata nel cancro ed è direttamente coinvolta nell’alterazione dei meccanismi di regolazione dell’apoptosi e nel determinare la proliferazione cellulare incontrollata che caratterizza le cellule tumorali. Recentemente, alcuni studi hanno mostrato un notevole stato di attivazione di questa via metabolica anche nell’IPF 29. PI3K/AKT è attivata nei fibroblasti e nel tessuto polmonare di soggetti affetti da IPF e la sua inibizione, in modo particolare dell’isoforma gamma, riduce in vitro la proliferazione, la differenziazione e la produzione di collagene di fibroblasti polmonari stimolati con TGF-beta, mentre in vivo, nell’animale da esperimento, l’inibizione di PI3K riduce sensibilmente l’azione fibrosante della bleomicina 30. Sulla base di queste osservazioni e sull’utilizzazione di specifici inibitori della PI3K nel trattamento di alcune forme di cancro anche nell’IPF è recentemente iniziata una sperimentazione clinica di fase I che presto fornirà indicazioni sulla possibilità di utilizzare questa categoria di farmaci nel trattamento dell’IPF. L’idea di considerare l’IPF come una patologia per molti aspetti simile al cancro può aprire nuove e diverse prospettive per questa malattia. Può contribuire ad aumentare la conoscenza e consapevolezza di questa malattia nell’opinione pubblica, tra gli operatori sanitari e anche tra chi è deputato a indirizzare le scelte di politica sanitaria. Le numerose conoscenze sui meccanismi della carcinogenesi, sicuramente più numerose e approfondite rispetto a quanto oggi conosciamo sulla patogenesi dell’IPF, possono fornire ulteriori spunti per meglio comprendere questa malattia e seguire approcci diversi per sviluppare nuovi farmaci. L’individuazione di meccanismi patogenetici comuni tra IPF e cancro ha inoltre aperto la strada all’utilizzazione di farmaci oncologici anche nel trattamento dell’IPF spalancando la porta a una serie di nuovi possibili trattamenti.

Conclusioni

Come per ogni malattia, anche per l’IPF lo sviluppo di nuovi farmaci passa attraverso la conoscenza dei meccanismi patogenetici che stanno alla base della patologia.

Come per ogni malattia, anche per l’IPF, lo sviluppo di nuovi farmaci passa attraverso la conoscenza dei meccanismi patogenetici che stanno alla base della patologia.

La ricerca di base è quindi l’unico mezzo per acquisire queste informazioni e per poterle poi traslare nella pratica clinica. Per una malattia rara e poco conosciuta come l’IPF tutto questo diviene più difficile ed è ostacolato dalla carenza di fondi pubblici e dallo scarso interesse dell’industria farmaceutica. Nonostante queste indubbie difficoltà, grazie all’interesse di pochi ricercatori sparsi nel mondo, le conoscenze sulla patogenesi dell’IPF negli ultimi dieci anni sono enormemente aumentate e hanno permesso di sviluppare nuovi approcci terapeutici e di stimolare l’interesse per questa malattia che ha portato a un aumento vertiginoso del numero delle sperimentazioni cliniche in corso. La strada resta comunque lunga, non è facile comprendere che cosa renda suscettibili certi individui alla fibrosi polmonare e quali siano i fattori di rischio capaci di agire su questi individui. Fumo di sigaretta, esposizioni di carattere ambientale o professionale, certe infezioni virali o stimoli cronici come il reflusso gastroesofageo o la trazione meccanica continuata su certe parti del polmone sono riconosciuti come possibili fattori di rischio che agiscono comunque solo su alcuni individui che probabilmente hanno specifiche caratteristiche geniche. Nel momento in cui il processo di fibrosi del tessuto polmonare si innesca entrano in gioco una serie di alterazioni del microambiente tessutale che portano a complessi cambiamenti funzionali dell’epitelio alveolare e dei fibroblasti polmonari che trasformano in modo definitivo il parenchima polmonare in tessuto fibrotico. In questa fase il processo diviene probabilmente, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, irreversibile. Alterazioni genetiche ed epigenetiche, modifiche dei microRNA, cattivo funzionamento dei meccanismi di autofagia cellulare e di apoptosi, ruolo delle cellule staminali, i perché dell’attivazione di specifiche vie di trasduzione del segnale sono solo alcune delle domande a cui la ricerca deve ancora dare risposta. È possibile che in futuro la comprensione dei fattori di rischio e dei meccanismi che determinano la suscettibilità possa portare a prevenire e forse a curare la malattia. Oggi, più realisticamente, dobbiamo augurarci di bloccare il processo di fibrosi del tessuto polmonare arrestando l’inesorabile declino funzionale della malattia. La “cronicizzazione” della malattia “fibrosi polmonare” è un obiettivo raggiungibile a medio termine e forse più a portata di mano di quanto si possa pensare a condizione che l’attenzione clinica e la passione per la ricerca in questo campo continuino a essere stimolati e sostenuti.

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Affiliazioni

Carlo Vancheri

Centro di Riferimento Regionale Malattie Rare del Polmone, Università di Catania, Dipartimento di Biomedicina Clinica e Molecolare, Azienda Ospedaliero-Universitaria “Policlinico-Vittorio Emanuele”, Catania

Copyright

© Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italian Thoracic Society (AIPO – ITS) , 2014

Come citare

Vancheri, C. (2014). Patogenesi della fibrosi polmonare idiopatica e prospettive terapeutiche. Rassegna Di Patologia dell’Apparato Respiratorio, 29(5), 246-252. https://doi.org/10.36166/2531-4920-2014-29-57
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